giovedì 14 gennaio 2016

Nepal 2015: Lago di Pokhara (settimo giorno)


Mercoledì 22 aprile

Dal cambio di programma avevamo guadagnato un giorno in più a Pokhara. Questa cosa ci ha spinti a considerare la possibilità di affittare delle mountain bike per un’intera giornata facendo il giro del lago. Il percorso era fattibile, anche se qualcuno ci aveva detto che l’intero periplo del lago era difficoltoso. Ma noi non avevamo alcun programma, l’idea era di uscire per tutta la giornata e godere di questa attività. Per questa ragione ci siamo portati una bottiglia d’acqua, del grana e alcune mandorle per non fare mancare mai le energie.

Il lago di Pokhara
Un’escursione in mountain bike
La giornata era splendida, anzi faceva persino molto caldo. Così ci siamo incamminati dal lato nord dove vi era una strada che costeggiava il fiume, poi al termine della città finiva anche l’asfalto e cominciava il battuto. Bisogna dire che l’asfalto in Nepal lo si trova nelle strade principali e spesso in città, anche se molte risultano non asfaltate. Nelle campagne invece i vari villaggi sono collegati direttamente con percorsi in terreno battuto e ovviamente ogni qual volta passa un mezzo si alza molta polvere. 
Il percorso che avremmo seguito era quello di costeggiare il bordo del lago per ritornare poi al punto di partenza. La passeggiata era molto suggestiva perché il paesaggio campestre era di forte impatto. All’interno del lago, nelle parti poco profonde, pascolavano i bufali mentre le porzioni di terreno non coperte dalle acque erano coltivate grazie ad un terreno molto fertile.

Il lago di Pokhara e in alto l'edificio bianco dello stupa della pace
Una piccola nota di distrazione l’abbiamo avuta attraversando uno dei villaggi, dove dei bambini, affascinati dalle biciclette ci chiedevano di fare un giro. Il loro intento non era quello di rubarle, come normalmente ci saremmo aspettati, ma di approfittare davvero dell’occasione per fare un giro. Enrico si è prestato a questa cosa, ha abbassato la sella e ha lasciato scorrazzare un bambino che in quei pochi minuti si è divertito. Poi ne sono arrivati altri due, e a quel punto, anche per non perdere molto tempo abbiamo recuperato la bici. In fondo quel gesto aveva regalato dei sorrisi a dei bambini che al massimo avranno usato delle bici vecchie e scassate; ma la vera bellezza consisteva nel fatto che nessuno di loro sembrava propenso a voler approfittare dell’occasione, e neanche nei dintorni, essendo gli unici turisti, nessuno s’era avvicinato con intenti negativi.

Enrico con dei bambini nepalesi
Un contadino col suo aratro
L’altro lato del lago
Giunti quasi al punto più estremo del lago, dove restava solo un rivolo di fiume che separava le due sponde, abbiamo attraversato un ponte tibetano e siamo giunti nell’altra sponda, quella più difficile. L’altra sponda era ricoperta di alberi e il fatto di essere giunti a mezzogiorno, non era male perché a quel punto un po’ d’ombra ci avrebbe davvero aiutato. Qui il percorso era davvero difficile perché le strade, non sempre distinguibili salivano e scendevano a ridosso del lago. Le case dei contadini diventavano sempre meno frequenti e in molti tratti c’erano vere e proprie aree di foresta intervallate da campi coltivati a terrazzamento. Salimmo su, ma poi siamo tornati a scendere finché il percorso invece di seguire il livello del fiume si è discostato iniziando una faticosa ascesa. Verso le tre del pomeriggio la stanchezza e la fatica si facevano sentire, spesso eravamo costretti a spingere la bici per l’eccessiva pendenza. Ma la strada era ancora lunga e la nostra meta, a quel punto, era quella di raggiungere lo stupa della Pace in cima al monte, con un dislivello di 300 o 400 metri.
Da nord però il tempo sembrava cambiare, una perturbazione carica di nuvole nere, sospinta dai venti di alta quota si muoveva verso la nostra direzione. Dopo pochi minuti infatti iniziò a cadere una pioggerellina fastidiosa. Tuttavia il percorso era lungi dall’essere terminato, seppure in linea d’aria a quel punto non si era troppo distanti dallo stupa, ma le salite erano davvero eccessive. La pioggia ad un certo punto cominciò a cadere copiosa trasformandosi in un vero e proprio temporale con fulmini e tuoni. Fu a quel punto che abbiamo capito che era il caso di fermarci sotto un albero per ripararci, seppure la pioggia non sembrava essere un fenomeno temporaneo. Dopo una decina di minuti abbiamo ripreso il passo e zuppi siamo andati avanti. All’ennesima sosta, sotto un riparo di fortuna (che non riparava neanche così tanto) ho capito che la situazione stava diventando troppo pericolosa. Eravamo nella sponda meno abitata, in mezzo alla foresta e sotto un temporale violento, tanto che l’acqua iniziava a scendere dalla strada a torrenti. In più sapevamo bene che in un temporale trovare riparo sotto gli alberi poteva esse pericoloso. Così abbiamo spinto ancora un po’ le bici, poi Enrico, più avanti di me, intravvedendo una tettoia, mi ha detto di abbandonare la bicicletta in mezzo alla strada per correre al riparo.


Enrico si scalda davanti al fuoco
Un riparo di fortuna
A pochi metri di distanza, oltre il sentiero, c’era una tettoia in ondulina dove si erano riparate delle donne provenienti dai campi. Il tetto non era integro, infatti in più punti cadevano rivoli d’acqua, ma almeno era un punto in cui potevamo ripararci. Quella presenza ci confortava, perché almeno c’era qualcuno in quella zona e se la situazione fosse peggiorata ancora quantomeno avremmo potuto chiedere soccorso. 
In quel momento però la cosa più importante era quella di ristabilire la giusta temperatura corporea perché con la sola maglietta estiva, non avevamo nessun modo per limitare il freddo. Difatti cominciammo a tremare, anche perché la temperatura era scesa un po’ e il rischio era di andare in ipotermia, qualora le temperature fossero andate ulteriormente giù ci terrorizzava. Ma la cosa più preoccupante era che il temporale non voleva smettere. Non si trattava di una scaricata d’acqua passeggera ma di un acquazzone che nel giro di pochi minuti divenne persino una forte grandinata. Sembrava si fosse scatenato il diluvio, e noi eravamo ancora in mezzo alle campagne senza alcun riparo per la notte; appunto, la notte, uno dei pensieri che ci passavano per la testa era come fare qualcosa la situazione volgesse al peggio. Non era molto tardi, l’orologio segnava le 16;30 e prima che facesse buio c’era per fortuna molto tempo. Ma in quelle condizioni anche l’idea di andare avanti diventava assai pericolosa qualora la situazione non fosse mutata. Nel frattempo la strada era diventata un torrente in piena con le bici a terra e sommerse dall’acqua che scendeva. Le scarpe da trekking erano totalmente inzuppate e controllando una delle gambe, mi sono accorto che all’esterno della calza si era attaccata una sanguisuga che stava succhiando il sangue attraverso le fibre della calza. L'ho subito staccata, con la conseguenza di veder uscire il sangue dalla caviglia per cui non avevo alcun rimedio, neanche un fazzoletto per tamponare. La stessa cosa era accaduta a Enrico, anch’egli vittima di una sanguisuga.

Dopo una mezz’ora abbondante l’acquazzone si attenuò, tanto da spingete le contadine ad andare via. Così anche noi, onde evitare di stare troppo fermi abbiamo deciso di riprendere le bici. Ma la salita continuava ad essere talmente ripida da non consentire di pedalare, inoltre il fondo era molto sconnesso e si doveva procedere in modo da evitare di farsi sommergere le caviglie dai torrenti d'acqua. Abbiamo percorso ancora qualche altro metro, poi la pioggia che sembrava essere diminuita è tornata a cadere forte come prima. Fortunatamente Enrico, che continuava ad essere davanti a me, aveva notato un altro luogo dove proteggerci, un piccolo fienile con altre donne a riparo.

Richa con la madre
La ragazzina in cerca di fidanzato
Le condizioni del riparo questa volta erano buone, tanto da indurmi a liberarmi dell’elmetto e della cartella. La nostra inattesa presenza aveva destato la curiosità  delle persone presenti e una ragazzina, grazie al suo inglese poté farci diverse domande: di dove siete? Dove alloggiate? Poi vedendoci intirizziti ha preso della legna e ha acceso un fuoco per riscaldarci, un gesto davvero provvidenziale perché quella fiamma ci ha permesso di asciugarci la maglietta e recuperare la temperatura corporea. 
Nel frattempo la ragazza continuava ad incalzarci: ha chiesto della nostra età, scoprendo anche che la donna che era con lei era sua madre: a dire il vero sembrava sembrava un’anziana, in realtà aveva appena quarant’anni. Poi è passata ai complimenti, dicendo che sua madre ci considerava dei begli uomini, sino alla fatidica domanda se fossimo o meno sposati… Qui si è capito un po’ tutto il gioco che simpaticamente era sorto. La ragazzina che si chiamava Richa aveva sedici anni, ma con le idee molto chiare. E quando abbiamo deciso di andare via ci ha detto che abitava non troppo lontano, che studiava alle superiori e che voleva andare all’università, facendomi scrivere il suo numero di telefono affinché la chiamassi quanto prima. Senza volerlo avrei trovato una fidanzata, anche se minorenne…

Le donne nepalesi
Ritengo necessaria una piccola parentesi in merito alle donne nepalesi, che purtroppo non ho avuto modo di conoscere direttamente. Non saprei dire come in realtà la pensino o come vivano, però ho potuto appurare che invecchiano molto presto. Diventano subito madri e la dura vita che affrontano fa perdere loro quel po’ di attrattiva che dovrebbero avere. La ragazzina aveva la freschezza della prima gioventù ma nessuna particolare bellezza, forse dovuta anche al fatto che viveva distante dalle mode della capitale o forse perché eravamo in aperta campagna e sotto un diluvio.
In genere si dice che le asiatiche posseggano un fascino particolare e una certa eleganza, qualità non applicabile alle nepalesi, né sull’eleganza né sul modo di fare. Le nepalesi in genere vestono abiti molto simili a quelli indiani, si tratta di abiti avvolgenti a tinta rossa con dei motivi astratti. Le ragazzine, quindi le donne non sposate, vestono spesso all’occidentale senza disdegnare gli abiti attillati, ma mai troppo eccessivi. Poi come qualsiasi ragazzina occidentale si mandano i messaggi o si fanno i selfie, smitizzando l’idea di una resistenza culturale ai nostri modelli.

Quando la pioggia è diminuita abbiamo ripreso le biciclette lasciando pochi spiccioli “per la legna consumata” alla ragazzina che ci aveva aiutato: in effetti quell’intervento è stato davvero provvidenziale!
Dall’indicazione sulla mappa non eravamo molto lontani dallo stupa della pace, almeno in linea d’aria. Rimanevano ormai poche salite, che in meno di mezz’ora ci hanno condotto finalmente alla struttura. Solo a quel punto ci siamo sentiti davvero rincuorati, perché l’edificio è una meta turistica e il pericolo era ormai del tutto passato.
Abbiamo legato lasciato le biciclette per entrare nel monumento in condizioni di assoluta sporcizia, con il fango che macchiava la maglietta e inzuppati sino alle mutande. Però dopo tanta fatica e pericoli era un piacere vedere da quell’altezza tutto il lago di Pokhara. La pioggia era cessata e il cielo cominciava ad aprirsi lasciando intravedere ciò che sino a quel momento non siamo riusciti a vedere: l’intero arco della catena himalayana! 

Lo stupa della Pace
L’incontro con Elisabeth
Subito dopo aver visitato lo stupa ci siamo spostati in un bar vicino per prendere una bevanda calda, anche il freddo continuava a dare problemi. L’aria era molto umida e il venticello che di tanto in tanto spirava dava un certo fastidio. Dovendo affrontare la lunga discesa per tornare in albergo, ci siamo fatti dare una busta di plastica da mettere sul petto come riparo dal vento che avremmo incontrato. Nello stesso tempo si è avvicinata una signora tedesca che ci ha visto in quelle curiose condizioni. Si trattava di un’insegnante che s’era presa un periodo di aspettativa per fare dei viaggi intorno al mondo. Ora era in Nepal, da sola, e il suo intento per quei giorni era di fare un’escursione in quota, poi magari si sarebbe spostata altrove. Enrico le ha lasciato il suo contatto, dicendole: “Se passi dalla Sicilia vienici a trovare…” Dopo alcuni mesi infatti ha mantenuto la parola ed è venuta a farci visita.

Le mie condizioni fisiche dopo la disavventura
La discesa è stata semplice e persino divertente perché compiuta in un percorso con tornanti e discese ripide, a tratti difficoltosa ma nel complesso entusiasmante. Alla fine siamo arrivati sulla strada principale dove la temperatura era tornata piacevole e il tardo pomeriggio mostrava un tramonto chiaro e senza più nuvole.

La stanchezza era molta e quando siamo tornati all’ostello siamo andati a dormire assai presto perché l’indomani ci aspettava il viaggio di ritorno a Kathmandu. Enrico nel frattempo percepiva qualche linea di febbre, ragion per cui provò a prendere dei farmaci per attenuarla. Ma con quella condizione dovette fare i conto per la restante parte del viaggio.

Pokhara e nello sfondo la catena himalayana

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