mercoledì 30 dicembre 2015

Nepal 2015: I dintorni di Pokhara (sesto giorno)


Martedì 21 aprile

Le sanguisughe
Uscii fuori che erano le sette del mattino. E mentre aspettavo che tutti gli altri si svegliassero vidi nel pavimento una specie di vermicello che si muoveva rapidamente allungandosi e contraendosi. Non ero molto sicuro ma mi sembrava una sanguisuga di cui le campagne nepalesi erano piene. Keshab stesso mi aveva mostrato il giorno prima il morso di una sanguisuga proprio tra due dita dei piedi. La sanguisuga era entrata dentro le scarpe senza che lui se ne accorgesse fissandosi in quel punto dove vi era rimasta una traccia di sangue. Quando mi mostrò la ferita ne rimasi impressionato. Ma egli aggiunse anche che le sanguisuga non facevano nulla e non portavano neanche malattie. Tuttavia lo avevo osservato con un certo timore, dicendo a me stesso: meno male che non ci sono incappato e che ne sto vedendo una semplicemente passare.
Una sanguisuga vicino i lacci delle mie scarpe
Dopo un po’ si era alzato anche Keshab il quale ci ha indicato la strada per fare poterci lavare. Abbiamo percorso un centinaio di metri per arrivare ad una fontana in cemento da dove sgorgava un’acqua freddissima. Quando terminai di lavarmi, accingendomi a sistemarmi Keshab mi fece notare che la calza destra era piena di sangue. Abbassai la calza nel punto in cui vi era la macchia rossa e scoprii i resti di una sanguisuga schiacciata. Il sangue ormai non usciva e il morso si era cicatrizzato. Sul momento mi preoccupai: dovevo forse medicarmi? Fui subito rassicurato sul fatto che non c’era alcun rischio, solo la scocciatura del morso. Tuttavia mi ripromisi di inviare un messaggio a casa per chiedere al dottore se dovevo seguire delle precauzioni… Ma dove l’avevo presa se la maggior parte del tempo l’avevo passata nel cortile di casa? E poi, com’è possibile che sia entrata dentro la calza e abbia succhiato il sangue senza che me ne accorgessi? Facendo mente locale su cosa avessi fatto il giorno prima capii tutto: la sanguisuga era salita quando sedendomi con Keshab a terra abbiamo osservato il panorama della valle sottostante. Poi quando sono andato a dormire, dato che si trovava nella parte posteriore della gamba, col peso del corpo l’ho schiacciata.

Il paesaggio sulla strada di ritorno
Un contadino col suo aratro e il bue vanno verso i campi
Contrariamente a quanto prospettato siamo partiti in ritardo, tutta quella inazione sin dal giorno precedente ci aveva stancato. Abbiamo cominciato la discesa attraversando diversi campi coltivati che ci facevano rendere conto di come in Nepal manchino i soldi ma non certo le possibilità di sostentamento. Lungo il percorso abbiamo attraversato un fiume con un moderno ponte tibetano, e incrociato anche dei camion che parevano avere delle similitudini con i carretti siciliani perché vi erano rappresentate delle figure sacre o semplicemente dei simboli colorati. La passeggiata si è conclusa nel primo pomeriggio, quando giunti a valle siamo arrivati qualche chilometro più in giù della casa di Keshab. Lì abbiamo preso un bus e siamo tornati in tempo a casa perché s’era messo improvvisamente a piovere forte. Tuttavia avevamo ancora del tempo a sufficienza per tornare a Pokhara e passare sulla via del ritorno anche da un insediamento di profughi tibetani. 
Raccolte le nostre cose abbiamo preso il primo bus di passaggio (il cui aiuto di Keshab è stato fondamentale) e ci siamo fermati al villaggio. 

Un moderno ponte tibetano
Un camion nepalese con dei caratteristici disegni
Il villaggio tibetano
Avevo delle aspettative su questo villaggio che purtroppo sono andate deluse; forse perché mi aspettavo un tipico villaggio tibetano in termini architettonici o forse perché avrei sperato di parlare con qualcuno, non so. Il centro del luogo è indubbiamente il tempio tibetano, luogo di preghiera e insegnamento. Quando siamo arrivati c’era un gruppo di americani che aspettava di entrare nel tempio. Con la scusa di volerci accodare ci siamo aggregati al gruppo e nell'attesa, l'unica distrazione possibile era quella di osservare i giovani monaci buddisti con la veste marrone scorrazzavano per il cortile. Nello stesso complesso c'era una scuola buddista e gli alloggi. Era bello osservare i loro volti e i gesti, che per quanto pacati erano pur sempre fanciulleschi.
Quando siamo entrati nel tempio e ha avuto inizio la celebrazione l'aspetto più suggestivo era l'ascolto del mantra. L’immagine che abbiamo dei monaci è quella di persone che rivolgono una concentrazione massima al mantra, ma non era così per tutti. L’ampia sala era piena di aspiranti monaci ragazzini che ripetevano meccanicamente le parole ma che dimostravano una palese disattenzione. Forse l’austerità della vita monacale scandita dalle molteplici ore dedicate alla preghiera, al silenzio e alle faccende, risulta eccessiva per dei ragazzini. Tuttavia ciò che ho potuto vedere era chiaro e forse molto più umano di quanto pensassi. C'è anche da dire che molti aspiranti monaci intraprendono quella strada non perché spinti da una vera devozione, ma per avere come sopravvivere o per avere una vita più dignitosa. Questa mia affermazione non è poi così sconvolgente, se si pensa né la medesima cosa avveniva nel medioevo in Europa. Le pressioni famigliari e la volontà di garantire un futuro migliore giocano sicuramente un ruolo, inoltre c'è una ragione strettamente legata alla cultura del luogo, cioè la volontà di migliorare il karma del figlio attraverso la vita monastica.
All’opposto c'era una signora americana fin troppo devota che aveva coinvolto anche la figlioletta. Lei era in prima fila a pregare cercando nel buddismo ciò che fino a quel momento la vita non le aveva concesso, un equilibrio mente e corpo. 
Siamo usciti pochi minuti dopo l’inizio del mantra, non avevamo tutto il pomeriggio a disposizione e la nostra venuta aveva il mero intento di vedere un posto, farcene un'idea. Sulla strada del ritorno c’erano anche diversi venditori di cianfrusaglie che diversamente dai nepalesi richiamavano i passanti. Lì ho comprato una piccola campana tibetana contrattando un po’ a ribasso sul prezzo.

Il tempio tibetano

Abbiamo preso ancora una volta il bus per arrivare a Pokhara dove avevamo affittato una stanza in un ostello finalmente in una posizione parecchio centrale. Di sera poi abbiamo incontrato nuovamente Clara che ci ha detto di voler tornare a Kathmandu il giorno seguente. I suoi piani in genere non sono molto precisi, anzi sembrano dettati più che altro da un’esigenza immediata che la spinge verso una direzione. Difatti aveva detto che era da troppo tempo lontana dalla capitale e sentiva il desiderio di tornarci dopo diverse settimane. Una ragione in più per rivederci di lì a qualche giorno…

Bandiere tibetane nei pressi dell'insediamento dei rifugiati

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