venerdì 29 luglio 2011

Dama con ermellino – Leonardo da Vinci

 
 
25/4/2000
Quale che sia la sfumatura del viso giovane - come il Bello nell’arte - tu sei viva immagine. Occhi rischiarano voluttà incomprese di capelli ove assurgo il senso stesso d’essere perfetta. Abbandono ogni parvenza di materialità percependo il colore della nervosa creatura: un chiaro emblema della nobile e casta Cecilia. Sfiorerei il tuo collo, come una leggera collana che fin sul petto rischiara la monumentale visione di ciò che era, e rimarrà per sempre stupendo.

giovedì 14 luglio 2011

Galileo Galilei

Galileo Galilei nacque a Pisa nel 1564. Ricevette da adolescente una buona educazione letteraria e culturale. Sin dall'inizio si dimostrò interessato alla matematica e all'interesse scientifico. Avviato quindi agli studi matematici, ancora studente scoprì la legge dell'isocronismo del pendolo e inventò la bilancetta idrostatica per determinare il peso specifico dei corpi. Era l'inizio di alcune scoperte che favorivano la conoscenza dei fenomeni sperimentalmente. Dall'89 al '92 fu lettore di matematica nel suo studio di Pisa. Ed è forse in questo periodo che egli compie il famoso esperimento sulla caduta dei gravi. Facendo cadere dalla torre di Pisa, di fronte ad un pubblico di dotti, una serie di pesi di diversa dimensione, dimostrando come non è il corpo più grande che cade più velocemente (come diceva Aristotele), ma il più pesante. Così in questo periodo scrisse il De Motu, un'opera ove esponeva le sue ricerche sul moto dei gravi, fondate sulle esperienze scientifiche iniziando già da allora il contrasto con le teorie di Aristotele, secondo cui i corpi nel vuoto aumentano la velocità di caduta proporzionalmente alle dimensioni. Invece, come scoprì Galileo, tutti i corpi cadono alla stessa velocità e nel vuoto arrivano nello stesso momento. Nel '92 quindi si trasferì a Padova dove ottenne la cattedra di matematica. Qui, insegnando cominciò ad avere un notevole successo, poiché le sue lezioni non erano solamente teoriche ma anche pratiche e con la dimostrazione di certi postulati. Addirittura con l'aiuto dei suoi studenti riuscì a dimostrare come la curva di un proiettile sia la risultante delle forze d'impulso e di gravità, formulando la legge dell'inerzia e preparando così la strada matematica a Newton per questo campo. Certo, dovette avere molti contrasti con gli altri professori, sia per il modo nuovo di condurre le lezioni sia per la sua presunzione nello scoprire piccole leggi che cambiavano il modo di pensare rimasto intatto da secoli. In una delle tante lettere scritte da Galileo a Keplero scrive: «Certo, è mortificante che siano così rari gli uomini amanti della verità, i quali per di più non perseguano modi erronei di ricerca. Ma poiché non è qui il caso di deplorare le miserie del nostro tempo, ma piuttosto di congratularmi con la S.V. per le bellissime scoperte nella conferma del vero, così questo soltanto aggiungerò e prometterò, che leggendo il suo libro con animo sereno, con la certezza di trovarvi cose bellissime. Farò ciò tanto più volentieri, perché già da molti anni ho aderito alla teoria copernicana e anche perché, partendo da tale posizione, ho scoperto le ragioni di molti fenomeni naturali, che sono, senza motivo alcuno di dubbio, inesplicabili in base alla corrente opinione.» La lettera è datata Padova 4 agosto 1597.

Nel 1609 Galileo si trova a Venezia, culla della cultura e dei commerci, ospite presso il Palazzo Ducale. Una sera di maggio apprese la notizia che un ottico olandese grazie ai suoi studi aveva costruito un giocattolo, il cannocchiale. Il cannocchiale è uno strumento che già da anni era fabbricato dagli ottici olandesi, ma non aveva ancora avuto successo. Il tubo ottico era formato da due lenti; convesse da un lato e concave dall'altro, consentendo di ingrandire le immagini lontane. Così preso dall'entusiasmo si costruì un primo rudimentale telescopio. Sapeva bene che le lenti degli occhiali non andavano bene per il suo intento, in quanto erano imprecise otticamente, così decise di costruirsele trovando tutto il materiale a Murano capitale europea della lavorazione del vetro.

Ad agosto costruì il suo primo telescopio che ingrandiva 9 volte e senza deformare le immagini. Quando il governo di Venezia apprese la notizia dell'esistenza del telescopio di Galileo, chiese subito allo scienziato una dimostrazione. Il 21 agosto 1909, alla sommità del campanile di Venezia davanti ad una rappresentanza di senatori e dotti mostrò la sua invenzione. L'effetto fu entusiasmante, la chiesa di Padova a 32 Km dal campanile attraverso il cannocchiale sembrava a 3 Km e mezzo. Murano, posta a 2 Km e mezzo, era avvicinata dal cannocchiale a 300m, una distanza che permette di distinguere le persone che passeggiano. Galileo offrì così il cannocchiale alla Repubblica di Venezia. E i senatori impressionati dalle possibili applicazioni militari dello strumento, gli tributarono un trionfo; e il suo stipendio all'università gli fu raddoppiato. Costruì quindi il suo secondo strumento con 20 ingrandimenti e più perfezionato. Ma stavolta decise di puntarlo verso il cielo ove scoprire un'infinità di meraviglie.
Il primo oggetto su cui puntare il nuovo telescopio è la Luna. Alla prima occhiata la Luna non gli apparve liscia e uguale ma montuosa e ricca di crateri. Dalla lunghezza delle ombre ricavò l'altezza di alcune sommità. Smentendo una convinzione radicata da secoli e cioè’ che la Luna sia liscia e che emetta luce propria. Egli vide che la luce era solamente quella riflessa dal Sole, tanto che poté comprendere il fenomeno della luce cinerea creata dalla riflessione dei raggi terrestri. Da ciò ricavò tantissimi disegni dettagliati della superficie lunare, con monti e valli. Poi puntò il telescopio verso le stelle, e rimase impressionato dal fatto che la Via Lattea non era quella distesa di vapori come prima si credeva, ma un'infinità di stelle ammassate. E' in questo periodo che scrive in latino il Sidereus Nuncius un'opera dove raccoglie tutti i commenti alle sue nuove scoperte: «Nella prima avevo stabilito di disegnare per intero la costellazione di Orione; ma poi, sopraffatto dalla massa ingente di stelle, e insieme dalla ristrettezza di tempo, rimandai questa impresa ad altra occasione; ce ne sono infatti più di cinquecento.» Nello stesso modo scoprì che le Pleiadi non sono 7 ma un gruppo di una quarantina di stelle prima invisibili.

Galileo invogliato dalle prime scoperte osservava tutte le notti. Di giorno invece lavorava per fabbricare un cannocchiale più perfezionato. Nei primi giorni del 1610 il nuovo strumento è pronto. Ingrandiva per 30 volte, e con esso compì una scoperta meravigliosa: «Pertanto il giorno 7 gennaio del corrente anno 1610, alla prima ora della notte, mentre guardavo gli astri celesti col cannocchiale, mi si presentò Giove; e poiché m'ero preparato uno strumento proprio eccellente, m'accorsi che gli stavano accanto tre stelline, piccole invero, ma pur lucentissime; e la loro disposizione sia rispetto a loro stesse che a Giove era la seguente...
Ma essendo io ritornato, non so da qual fato condotto, alla medesima indagine il giorno 8, trovai una disposizione molto diversa: erano infatti le tre stelline tutte occidentali rispetto a Giove.
» Così osservando le sere seguenti Galileo comprende che accanto a Giove vi erano pianeti piccoli appena scoperti.

Il 12 marzo 1610 pubblicò il Sidereus Nuncius in cinquecento copie esaurite in poco tempo, con questo libro stupì l'intera Europa che discuteva dei monti della Luna, dei 4 nuovi pianeti e del cannocchiale dello scienziato. I quattro pianeti di Giove furono chiamati Medicei, in onore dei Medici del granducato, ma comunemente detti Galileani. Così i Medici per ringraziarlo dell'onorificenza del nome gli esaudirono il suo vecchio sogno: diventare il matematico di corte. Con questo incarico Galileo si poté dedicare pienamente alle sue osservazioni, senza problemi di orario e di insegnamenti universitari, eccetto qualche lezione privata. Nel settembre dello stesso anno dopo aver accettato la proposta dei Medici ritornò ad Arcetri, lasciando 18 splendidi anni di scoperte e successi a Padova.

Poco tempo dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, gli avversari di Galileo si mobilitarono. Le scoperte era false e ingiuriose, Giove non poteva possedere dei pianeti perché ammessa l'esistenza, non servirebbero a niente. E dato che gli astrologi, con i loro oroscopi avevano tenuto conto di tutto ciò che si muoveva nel cielo, l'affermazione di Galileo era da ritenersi falsa. Nonché anche i professori di Pisa lo attaccarono, dicendo che i satelliti di Giove non esistevano perché non vi potevano essere più di sette oggetti mobili in cielo. Perché sette? Perché: sono sette i peccati capitali, sette i giorni della settimana, sette le meraviglie del mondo ecc. E poiché gli antichi erano molto sapienti e non ne parlavano nei loro testi, i pianetini non potevano esistere e chi li osservava al cannocchiale affermava che erano delle illusioni. Spesso alle contestazioni lo scienziato lasciava rispondere i suoi studenti, cercando invece di convincere grandi personalità come Keplero, al quale inviò una copia del suo libro incitandolo a dare un suo parere. Si dice che Keplero alla lettura delle scoperte pianse di gioia. Rispose subito a Galileo e si congratulò per quanto già fatto. Così il pisano gli mandò un cannocchiale con il quale poté anch'egli osservare i nuovi corpi celesti. Era importante anche convincere eminenti autorità come Clavius, Gesuita e capo degli astronomi del Papa. Egli era un grande esperto, ascoltato in tutta Italia. Ma si dimostrò restio a vedere allo strumento, finché, dopo tanto tempo anche lui riuscì a vedere i satelliti e apprezzarne l'esistenza.

Nel frattempo lo scopritore dei satelliti continuava a osservare il cielo. Su Saturno vide due satelliti appaiati, che per qualche tempo sparirono, erano gli anelli che si resero realmente visibili solo più avanti a Huyghens con un telescopio più potente. Ma se con Saturno non ebbe molta fortuna, non si poté dire lo stesso con Venere. Vi scoprì subito le fasi come quelle lunari e dopo esserne realmente certo ne comunicò la scoperta.

Nel settembre 1610 spedì a Keplero una lettera con un anagramma e a dicembre ne diede la soluzione "La madre degli amori imita le forme di Diana", cioè Venere imita le fasi della Luna. Osservò anche che il pianeta era a volte dietro il Sole e a volte davanti. Con tutte queste scoperte Galileo diventò un Copernicano convinto, perché se Venere girava attorno al Sole e mostrava le fasi come la Luna e in certi periodi si mostrava più grande e in altri più piccolo, tutto diveniva più chiaro e significava che il sistema eliocentrico è quello esatto. Ecco cosa scrisse in alcune sue lettere: a Giuliano de’ Medici, Firenze 13 novembre 1610. «Questo è, che Saturno, con mia grandissima ammiratione, ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme, le quali quasi toccano; sono tra di loro totalmente immobili, e costituite in guisa...; quella di mezzo è assai più grande delle laterali; sono situate una da oriente e l'altra da occidente, nella medesima linea retta a capello.» E poi ancora il 1° gennaio 1611 «Sapranno dunque come, circa 3 mesi fa, vedendovi Venere vespertina, la cominciai ad osservare diligentemente con l'occhiale, per veder col senso stesso quello di che non dubitava l'intelletto. La veddi dunque, sul principio, di figura rotonda, pulita e terminata, ma molto piccola: di tal figura si mantenne sino che cominciò ad avvicinarsi alla sua massima digressione, tuttavia andò crescendo in mole. Cominciò poi a mancare dalla rotondità nella sua parte orientale e aversa al sole, e in pochi giorni si ridusse ad essere un mezzo cerchio perfettissimo; e tale si mantenne, senza punto alterarsi, sin che cominciò a ritirarsi verso il sole... e certa dimostrazione di due gran questioni, state sin qui dubbie tra' maggiori ingegni del mondo. L'una è, che i pianeti tutti sono di loro natura tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l'istesso che a Venere): l'altra, che Venere necessariissimamente si volge intorno al sole, come anco Mercurio e tutto li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio.»

Il 29 marzo 1611 Galileo giunse a Roma, chiamato dalle alte autorità ecclesiali per vedere le sue nuove scoperte. Ricevette un'accoglienza trionfale presso gli astronomi del Collegio Romano e da Clavius. Fu accolto anche dal Papa Paolo V che lo ricevette in udienza privata. Nello stesso periodo Galileo dopo aver incontrato tutti gli intellettuali romani, venne anche nominato membro dell'Accademia dei Lincei. Un'accademia ove si riunivano uomini curiosi di conoscere le novità scientifiche. Ne facevano già parte: il matematico benedetto Castelli e il fisico Evangelista Torricelli. A questa proposta Galileo accettò estasiato, coinvolgendo così tanto il gruppo da far diventare uno dei programmi ufficiali la valorizzazione del programma scientifico dello scienziato e un acceso antiaristotelismo. Ma Galileo non sapeva che nel giugno dello stesso anno il cardinale Bellarmino, il primo teologo della Chiesa dell'epoca, chiese un rapporto segreto dell'Inquisizione sul pisano.

Nel settembre 1611 Galileo pranzò alla tavola del granduca Cosimo de’ Medici. E nacque una discussione sul fatto che il ghiaccio galleggia sull'acqua; alcuni degli invitati difendevano le teorie di Aristotele dicendo che il ghiaccio galleggia perché ha una forma a lastra e si oppone alla penetrazione dell'acqua. Galileo invece affermava, dopo i precedenti studi effettuati a Padova che il ghiaccio è più leggero dell'acqua e che quindi vi galleggia. Così arrivò a smentire le vecchie convinzioni aristoteliche in cui i corpi sono distinti in: pesanti e leggeri. Galileo fece notare che tutto derivava dalla aggregazione della massa, cioè diremo ai nostri giorni dalla densità, che cominciò a studiare subito dopo la scoperta della bilancia idrostatica. Il granduca quindi chiede a Galileo di scrivere un trattato, lo dedicò a Cosimo II, intitolato Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono (1612). Egli era un avversario duro da sconfiggere sul piano scientifico, e per queste sue continue vittorie si creò molti nemici che volevano a tutti i costi fargli smentire le affermazioni.

Nel 1612 i rivali cominciarono a muoversi, il primo fu padre Lorini che dichiarò come le affermazioni di Galileo erano in contrasto con la Bibbia e specialmente al passo in cui Giosué fermava il Sole. Ma Galileo si stava occupando d'altro, dell'osservazione delle macchie solari. Le macchie solari non sono state scoperte da Galileo, ma dagli antichi che di tanto in tanto scorgevano a occhio nudo le macchie, egli già nel 1610 iniziò le osservazioni. Ma in Germania padre Scheiner scrisse le Lettere sulle macchie solari, concludendo con tesi aristoteliche che essendo il sole un corpo perfetto non poteva avere macchie, esse quindi erano piccoli pianeti che passavano davanti al Sole. Galileo rispose nel 1613 con Lettere e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, affermando che le macchie erano nubi piatte sulla superficie del sole e che il sole ruota su se stesso con velocità uniforme.

Nel 1613 iniziò ufficialmente la trappola contro Galileo. L'unico modo per farlo tacere era quello di portarlo con le spalle al muro parlando delle controversie religiose. Un domenicano di nome Caccini si scagliò con una serie di lettere contro lo scienziato, ne nacquero continue controversie e accuse, così da tutto questo gran movimento l'inquisizione si mise in moto. La chiesa non poteva stare immobile, poiché le confutazioni Copenicane si moltiplicavano e ciò che da 80 anni si discuteva sotto voce, adesso si gridava e se ne parlava continuamente. Galileo era diventato pericoloso, contro le convinzioni teologiche sull'universo e sulla veridicità delle affermazioni delle Sacre Scritture. Il cardinale Bellarmino, figura importante dell'epoca, colui che per tutta vita si era dedicato alla chiesa, che aveva mandato al rogo Giordano Bruno e aveva chiesto un rapporto segreto su Galileo gli scrisse in una lettera: «è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e teologi scolastici, ma anche nuocere alla Santa fede col rendere false le Sacre Scritture...». E Galileo in una lettera al Castelli del 21 dicembre 1613 scrisse: «...non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti di assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno dei suoi interpreti ed espositori, in vari modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbero non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come la Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole profferiti. Stante dunque che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe essere riserbata nell'ultimo luogo...» Così in questa marea di critiche scrisse una lunga lettera a Cristina di Lorena la granduchessa, ove affermava che Dio si rivela agli uomini in due modi: attraverso la Bibbia, scritta secondo la cultura dell'epoca ma di basilare importanza per i princìpi teologici della Fede, e poi attraverso il libro dell'universo scritto in caratteri matematici, aperto alla conoscenza umana e espressione della potenza di Dio. Ma nel 1616 la Chiesa gli impose di rinnegare le sue false teorie e speculazioni sopra le scoperte fatte. A un suo amico scrisse: «Non voglio vedere uomini di valore pensare che per me le idee di Copernico non sono che un’ipotesi matematica priva di realtà». Egli non voleva essere considerato un eretico, sia perché non voleva finire al rogo e sia perché, egli era profondamente credente e anche a lui gli interessava porre una giusta via riguardo le scoperte. Così, invece di rinunciare decise di battersi contro la mentalità retriva a innovazioni, da parte di buona parte del clero papale.

Il 26 febbraio 1616, Galileo ottenne un colloquio con Bellarmino, circondato dai domenicani più importanti, gli fu comunicato che l'Inquisizione aveva emanato un decreto: «L'idea che la terra ruota attorno al sole è stolta, assurda, filosoficamente e formalmente eretica, perché contraddice esplicitamente la dottrina delle Sacre Scritture...» Vengono quindi ritirate presso tutte le librerie i libri dello scienziato, di Copernico e di tutti coloro che sostenevano tale sistema. Galileo riapparve due anni dopo, quando pubblicò Il Saggiatore, parola derivante dal nome delle bilance di precisione degli orefici, con il quale intendeva pesare le opinioni proprie e altrui. Sviluppò una polemica contro le speculazioni scientifiche sulla natura delle tre comete che erano apparse in quel periodo. Il più grande oppositore era Grassi che pensava che le comete fossero giustamente corpi di origine celeste; mentre Galileo pensava fossero apparenze dovute ai raggi solari, errato da parte di Galileo ma giusta la critica contro coloro che affermavano cose solo per il sapere "cartaceo", privo di ogni esperienza.

Nel 1623 anno di pubblicazione dell'opera, morì il Papa e successe Urbano VIII già cardinale Barberino amico e difensore di Galileo da moli anni. Ricevuto a braccia aperte dal nuovo Papa, ottenne il permesso di scrivere un'opera ove presentasse le due teorie possibili secondo Tolomeo e Copernico. Impiegò quattro anni per scrivere, e nel 1632 pubblicò il libro intitolato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il Dialogo è tra tre uomini: Salviati difensore di Copernico, Sagredo un uomo di buon senso che cerca di capire e Simplicio difensore di Aristotele e del sapere privo di esperienza. Sagr.«...il dire "Perch'io non so a quel che mi serva Giove o Saturno, anzi non sono in natura"; mentre che, o stoltissimo uomo, io non so né anco a quel che mi servano le arterie, le cartilagini, la milza o il fele, anzi né saprei d'aver il fele, la milza o i reni, se in molto cadaveri tagliati non mi fussero stati mostrati, ed allora solamente potrei intender quello che operi in me la milza, quando fusse levata. Di più, chi vorrà dire che lo spazio che costoro chiamano troppo vasto ed inutile, tra Saturno e le stelle fisse, sia privo d'altri corpi mondani? Forse perché non gli vediamo? Adunque i quattro pianeti Medicei e i compagni di Saturno vennero in cielo quando noi cominciammo a vedergli, e non prima? E così le altre innumerabili stelle fisse non vi erano, avanti che gli uomini le vedessero? Prontuosa anzi temeraria ignoranza de gli uomini! (...) Grandissima mi par l'inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l'universo più proporzionato alla piccola capacità del lor discorso, che all'immensa, anzi infinita, sua potenza.» All'uscita del libro che ebbe un grandissimo successo in tutta Europa, corrispose un duro attacco al sistema geocentrico e l'immediata risposta dell'Inquisizione, il libro venne subito vietato, e Galileo richiamato a Roma, minacciato di tortura pur avendo 69 anni, solo, senza nemmeno l'appoggio di Cosimo de' Medici, morto qualche anno prima.

Il 12 aprile 1633 fu dichiarato in stato di arresto e imprigionato, dovette inginocchiarsi e abiurare tutte le verità scoperte: «Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie...e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o per scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d'heresia, lo denunziarò a questo santo Offizio...» come penitenza per tre anni venne condannato alla recitazione quotidiana dei sette salmi penitenziali; il Papa non firmò la sentenza. Poi la leggenda vuole che egli disse: «Eppur si muove!».

Per le sue precarie condizioni di salute e per venirgli incontro, fu rilasciato un anno dopo e gli fu concesso di risiedere prima a Villa Medici, a Trinità dei Monti, poi a Siena presso l'arcivescovo Piccolomini e infine a casa sua ad Arcetri, presso Firenze. Naturalmente impossibilitato a uscire senza autorizzazione, né ricevere visite senza un inquisitore.
Così per non far pesare il tempo, decise di dedicarsi alla stesura dei suoi ultimi libri che uscirono più avanti: Dialoghi delle nuove scienze e Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali. Riuscì a farli pubblicare clandestinamente ad Amsterdam, lontano da Roma e da chi non capiva l'importanza di quei libri definiti i primi trattati di fisica moderna.
Nel 1638 divenne totalmente cieco, perdendo quel senso che tanto usò per comprendere il cielo; il 2 gennaio 1638 scrisse della sua cecità: «In risposta all'ultima gratissima di V.S. delli 20 novembre, intorno al primo punto ch'ella mi domanda, attenente allo stato della mia sanità, le dico che quanto al corpo ero ritornato in assai mediocre costituzione di forze; ma ahimè, signor mio, il Galileo, vostro caro amico e servitore, è fatto irreparabilmente da un mese in qua del tutto cieco. Or pensi V.S. in quale afflizione io mi ritrovo, mentre che vo considerando che quel cielo, quel mondo e quello universo, che io con maravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni avevo ampliato per cento e mille volte più del comunemente veduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me s'é sì diminuito e ristretto, ch'é non è maggiore di quel che occupa la persona mia. Questa così strabocchevole trasmutazione ha cagionato nella mia mente una straordinaria metamorfosi di pensieri, concetti ed essegnamenti; sopra di che per ora non posso se non dire, anzi accennar poco a V.S. molt'illustre, perché mi trovo troppo distratto di mente anco nel pensare alle nuove amministrazioni circa più particolarmente alle cose contenute nella sua graditissima lettera...» In quegli anni di salute cagionevole oltre a perdere la vista perse anche l'udito e perdendo anche la possibilità di suonare il suo strumento preferito, il liuto. L'8 gennaio 1642 morì ad Arcetri il grande scienziato, apprezzato per aver rivoluzionato il pensiero nei confronti della scienza, ma morto da eretico.
Galileo fu un uomo eccezionale, egli segna il passaggio decisivo tra la vecchia concezione della scienza puramente filosofica e in alcuni casi astratta, e della nuova distaccata dalle affermazioni filosofico-teologiche basandosi sulla dimostrazione delle teorie e non sulle sue speculazioni e errate interpretazioni. Il passaggio definitivo a questo modo di intendere la scienza non è solo frutto delle scoperte di Galileo, ma anche di tanti altri scienziati come Copernico che facevano già da tempo prendere coscienza dei limiti delle convinzioni assolute. In quegli anni anche Giordano Bruno affermava di un universo infinito e eliocentrico. Ma è sicuro, che Galileo dà un grosso colpo a ciò che si stava preparando da tempo. Fu lui a far capire che tutte le affermazioni vanno riscontrate anche nella pratica, egli non sosteneva idee inventate, ma vedeva realmente la realtà. Il problema dell'epoca erano le antiche convinzioni difficili da sdradicare: vedi l'eliocentrismo, la disuniformità della superficie lunare, le macchie solari, le fasi di Venere, i satelliti di Giove e Saturno, la natura della Via Lattea, delle comete ecc. tutte convinzioni smentite da chiunque osservava con il suo telescopio. Insomma possiamo affermare che Galileo ha segnato un'epoca e che riuscì con gli anni a far comprendere alle menti dei teologi, che la Bibbia non va presa alla lettera, ma va interpretata in base al periodo storico. Dobbiamo anche aggiungere al di là delle innumerevoli scoperte astronomiche e più prettamente di natura fisica: la caduta dei gravi, la forza di inerzia ecc. Che Galileo è il primo divulgatore della scienza e dell'astronomia in genere, fu infatti uno dei pochi ad avere tutta la volontà di scrivere trattati in volgare, per rendere alla portata di tutti le conoscenze e far guardare a una moltitudine di gente le meraviglie del cielo, patrimonio di conoscenza per tutti.

(2005)

Bibliografia:
-Storia d'Italia, Indro Montanelli EDIZ. Rizzoli.
-Galileo messaggero delle stelle, Jean-pierre Maury EDIZ. Universale Electa/Gallimard Scienza;
-Letteratura Italiana, Mario Pazzaglia EDIZ. Zanichelli.

martedì 12 luglio 2011

Berlino

 
Carl Sternheim scrittore tedesco, ha scritto: “Tutto quanto è accaduto a Berlino non ha paragoni”, mai frase è stata tanto calzante per una città. Sopravvissuta agli eccessi del XX secolo, devastata dai bombardamenti di due guerre mondiali, sconvolta dalla follia nazista prima e da quella comunista poi, divisa infine dalla ferita indelebile del muro cui per anni è stato associato il nome; Berlino ha vissuto le tensioni internazionali nel giardino di casa propria, facendo germogliare il seme di una nuova coscienza collettiva. Dopo il miracolo della riunificazione, la capitale della nuova Germania ha investito nel contemporaneo, nei recuperi urbanistici, nello stile degli edifici progettati dai più famosi architetti al mondo, e in una vivace vita culturale che declama il suo ingresso nel nuovo secolo. Tuttavia, per quanto la vergogna della recente storia abbia inflitto i colpi di una disfatta, la dignità di metabolizzarne gli orrori, ha consentito il rinnovamento dei suoi simboli legandoli all’immagine di un futuro prossimo. Poco distante dalla cupola a vetri del Reichstag, superando la porta di Brandeburgo, si commemora l’olocausto degli ebrei nell’inquietante monumento a parallelepipedi; oppure passeggiando tra le vie del quartiere Friedrichshain è possibile osservare l’East Side Gallery, un tratto del defunto Muro di Berlino, in cui artisti di tutto il mondo hanno immortalato nei graffiti un lungo messaggio di pace. Sicché percorrendo la Friedrichstraße, l’importante arteria del quartiere Mitte, si rivivono le ansie della Guerra Fredda varcando senza più paura il Checkpoint Charlie, lo stesso luogo dove appena vent’anni fa terminava dietro le sbarre di un varco militare il confine dell’occidente democratico… 

Ma in questa città non si vive solo il dolore dei berlinesi, ancora una volta riproposto nei tagli funzionali del Museo Ebraico, qui c’è voglia di vivere l’arte antica nel fascino di un’isola museificata in imponenti edifici di fine ottocento: il Pergamonmuseum, con il fastoso Altare e la Porta di Ishtar, l’Altes Museum, il Neues… il respiro di un weekend non è sufficiente a contenerli tutti; così si suggeriscono soggiorni plurimi, a stagioni diverse, onde gustare i mutamenti della città dietro i vetri scuri del Sony Center, protetti dall’ombrello in vetrocemento in Potsdamerplaz: una nelle ultime meraviglie di Renzo Piano. In realtà i berlinesi sembrano abituati ai mutamenti del paesaggio urbano, agli sconvolgimenti politici, o a quelli legati al costume. Influenzati da strane mode punk, dai sempre più frequenti locali gay, dalle manie di tatuaggi ricamati lungo il corpo, dalle eccentricità di un orecchino di troppo, dalle follie della musica Techno sotto l’ombra della Colonna della Vittoria in Tiergarten; Berlino dimostra d’essere una città per ogni momento, per ogni inclinazione di vite, per ogni indole e generazione. Così scorazzando su e giù tra le scale mobili della U-Bahn (la metropolitana), tra i quartieri est ed ovest, tra una piazza storica e ed un’altra, tra uno scorcio del lungofiume e quello alberato dell’Unter den Linden, si finisce col ricordare i giorni caldi del mondiale: la festa di bandiere ed urla da stadio visti dietro il piccolo schermo di una TV di casa. Berlino è tutto questo, un elenco di ossimori che amalgama riso e pianto, gioia e dolore, antico e moderno, guerra e pace…

In Out

Un utile periodo di formazione quello di In Out, rivista siracusana con cui ho piacevolmente condiviso, per un breve periodo (poco più di un anno a cavallo tra il 2007 e il 2008) una certa voglia di fare e di migliorare. Gli articoli che scrissi per In Out erano dapprima una sorta di commenti di viaggio, un riassunto di sensazioni, per poi aprirmi a un più arduo tentativo di abbracciare il mondo dell'arte. Così sono nate le mie interviste a galleristi e artisti, che per quanto imperfette mi hanno aiutato in quello che è divenuto un prezioso processo conoscitivo.

Poi però In Out cominciava a stare stretta, una linea editoriale discutibile, poche idee e poco coraggio mi hanno suggerito un abbandono prematuro che sarebbe sfociato nel progetto Elapsus...

lunedì 11 luglio 2011

Ritratto di dama (La belle Ferroniere) – Leonardo da Vinci



25/4/2000
Fiera e stupendamente orgogliosa: così nacque la tua immagine antica. Il tuo sguardo di sublime sapore m’estrania alla limpida espressione d’uno spazio relativo, vestito all’elegante tuo essere donna. Scorgi tra le labbra, l’espressione d’impenetrabile silenzio e ammira in me, colui che t’immortala tra parole dipinte - come un secondo Leonardo - vivi nella mia percezione.

domenica 10 luglio 2011

La protesta in fondo è necessaria

Trovo francamente assurdo riscontrare come gli italiani, e in special modo i meridionali, convivano con un grave senso di rassegnazione verso tutto. Ogni cosa che accade giornalmente viene subita con passività, senza neanche intentare una reale forma di contrasto.
Mi induce una grande riflessione il fatto che in busta paga siano prelevati ogni mese delle tasse comunali e regionali piuttosto alte, oppure che si paghi una consistente tassa sull'immondizia che non corrispondono poi a servizi adeguati. Sicché restiamo immersi in un'atmosfera di mugugnìi ma non di serie proteste.

Ciò che penso è che vivendo (per fortuna) in un paese democratico il volere del popolo ha ancora un suo peso. Se una misura è assai impopolare o se suscita ondate di malcontenti, come scioperi o persino scontri, essa può essere modificata. Quante volte una serie di norme sono state ritirate proprio a causa delle proteste? Tutto ciò ha un vero significato, perché la volontà popolare ha comunque un suo peso e quando essa non coincide con le aspettative di certi poteri economico-politici si è costretti a innescare processi per tentare di convincere il popolo stesso.

Questo senso di rassegnazione è in parte giustificabile ma in buona parte no, perché se la nostra storia nazionale avesse vissuto delle rivoluzioni come quelle avvenute a più riprese in Francia e puntualmente tradite da eventi contrari, allora una certa coscienza contraria avrebbe senso. Ma il caso nostro è patologico e assolutamente privo di un barlume di speranza in merito alla nostra redenzione come nazione.

venerdì 8 luglio 2011

Trapasso di morte nei miei occhi

Non sono mai stato troppo legato alla mia vita, non perché avessi da rimpiangerne desideri irrealizzati o aspirazioni soffocate; semplicemente perché mi sentivo stanco di contrastare i dolori e le sofferenze quotidiane. Odiavo la vita nei suoi alti e bassi di miseria esistenziale, ne odiavo la routine giornaliera del lavoro, i soliti amici e le solite cose da fare, e per finire cominciavo a stancarmi persino di Amelia. Da due anni ormai il nostro rapporto era divenuto del tutto scontato ed abitudinario, e forse solo il matrimonio avrebbe ravviavo una situazione che volgeva da parte mia verso il disinteresse e l’assuefazione. Negli ultimi tempi poi, questa disaffezione divenne sempre più evidente, tanto da indurmi a pensare ad una mia possibile morte come una sorta di cambiamento, come una luce di nuova libertà dal tedio quotidiano. Ma il mio desiderio, forse più recondito che concreto non sarebbe mai passato all’atto pratico se non nel caos del destino…
Tutto avvenne una sera, tornando dal lavoro con la mia auto, s’era fatto tardi e la strada statale era bagnata dall’umido della prima notte. Per troppe ore avevo sbattuto su problemi e odiose faccende d’azienda, così al termine di quel giorno la stanchezza concedeva il solo desiderio del ritorno a casa. Ma a complicarmi le cose s’era aggiunto al buio della strada, anche il fastidio d’una nebbia a banchi che avrebbe rallentato di molto il mio ritorno. E per quanto volessi usare prudenza nella guida, ogni qual volta che venivo investito da una nuova coltre bianca, l’inquietudine del “non-vedere” puntualmente mi procurava un sentore di morte; mentre la parte razionale di me, materializzava le sue paure sul possibile vuoto d’un baratro ove piombare in piena velocità. Forse ciò che sentivo dentro era la percezione concreta del pericolo, oppure l’intuizione sensitiva d’un qualcosa che sarebbe successo. Percorsi pochi metri dall’ultima nube lattiginosa, poi il sentore inquietante divenne palpabile in tutto il corpo, quasi da farmi tremare; fui investito dal fascio bianco degli abbaglianti d’un’auto che sovveniva in velocità; esso avvenne in un attimo, un istante in cui la percezione delle cose ricordava il solo abbaglio, poi nulla più…
Dapprima non riuscii a comprendere nulla, poiché i miei sensi parevano non rispondere alle mie sollecitazioni e il mio corpo, immobile ed inattivo, mi celava ogni verità su ciò che m’era successo. Fu poi il richiamo d’una luce bianca che mi rassicurò, una luce invitante che istintivamente m’invogliava a farmene pregno e a desiderare l’unione con essa; quindi una subitanea sensazione di rilassamento, di calma e pace indescrivibile si diffuse in ogni parte del mio essere. Percorsi quel tunnel luminoso nell’inconscia realizzazione d’una sorta di desiderio nascosto che non decifravo ancora; mentre il tempo pareva allungato e in procinto di sfiorare l’eternità immutabile delle cose, quasi sentissi bisogno d’infinito! E non so bene dire quanti istanti dopo, proprio perché il concetto di tempo sembrava non essere un qualcosa di tangibile al suo interno, m’accorsi che la luce rassicurante cominciava pian piano a svanire, lasciando tutt’intorno un languore spettrale, una soffusa e soffocante sensazione di tristezza ed angoscia. Del perché mi trovassi lì, ma soprattutto del perché avvertissi tale sensazione, non sembrava un qualcosa di spiegabile con il raziocinio; non c’era un motivo o una causa scatenante a tale condizione, ragion per cui, fui spinto dalla mia stessa curiosità nel voler capire ove fossi e cosa mi stesse succedendo. Solo dopo uno sforzo irrazionalmente non corporeo e quindi tangibile, cominciai a percepire la presenza di molte persone attorno a me: voci e lamenti che provenivano da ogni dove; gemiti sommessi, pianti e persino grida che sentivo in misura chiara e definita. Dunque in questa raggiunta consapevolezza provai a distinguere i volti dei presenti; c’era vicino a me mia madre che mi fissava con sguardo illacrimato, quasi assorto nella contemplazione del mio viso, e poi quello di mio padre e di mia sorella di simile umore. Poco dietro le urla piangenti di Amelia e gli abbracci consolatori della madre a trattenerne il dolore, quindi distinsi i volti d’altri amici e parenti che non vedevo da tempo. Tutti sembravano raccolti attorno a me che ormai riuscivo comprendere la struggenza del loro dolore, senza però svelarne chiaramente la causa. Pensai quindi d’avvicinarmi a loro per chiedere cosa mai fosse successo e chi stessero piangendo. Aleggiai come sospinto da una mancanza di gravità, e avvicinatomi ad Amelia pronunciai poche parole che chiedevano spiegazioni. Ma nulla stranamente mi fu risposto, non un cenno, non un’alterazione del volto alla mia presenza. Così riprovai vanamente ancora e poi ancora senza reazione alcuna, tanto da provare istintivamente un’angosciosa sensazione di lontananza inane. Poi voltato il mio sguardo verso mia madre che ancora permaneva silente nel suo dolore, ebbi finalmente la chiara visione di tutto. C’era una bara socchiusa al centro della stanza da cui proveniva la ragione d’ogni lutto, e in essa giaceva il mio corpo! Ero dunque morto, ero trapassato alla nuova vita, ero un’anima immateriale, uno spirito senza corpo che s’aggirava tra i presenti di quella sala. Tutto quindi era avvenuto, la fine della vita era giunta, il termine ultimo d’ogni cosa tangibile e reale s’era concluso, e adesso affrontavo i misteri del metafisico con maggior coscienza.
Tale stato immateriale però, non pareva rendermi felice come da vivo avrei pensato, in quanto la mia condizione di “anima terrena” non avrebbe ancora contemplato quella gioiosa ascesa al paradiso più alto. Il mio brusco trapasso m’avrebbe legato al mondo dei vivi per troppo tempo ancora, lasciandomi la visione funesta delle altrui vite: la morte, sarebbe divenuta il calvario d’una lunga espiazione. Dunque quella nuova condizione che da vivo avevo fin troppo spesso agognato, non corrispondeva ad un felice trapasso, ma al perdurante rimpianto della vita stessa… E nella raggiunta consapevolezza d’una flebile possibilità di ritorno, provai a rientrare nel mio corpo materiale, il quale nell’immota quiete della morte, pareva non consentire il mio ricongiungimento, quasi fossi repulso da una forza sconosciuta!
Aprii gli occhi risvegliandomi come da un lungo sonno, percependo dapprima sommessi lamenti di morte e sofferenza; al ché urla e pianti liberatori mutarono in dolcezza l’angoscia del mio status animae. Ero tornato alla vita come fossi nato una seconda volta, come se la gioia del respiro fosse stata un’esperienza mai vissuta. Con gli occhi d’un neonato quindi, vidi la luce dell’esistenza terrena farsi reale, il sole illuminare il mio volto ed il lutto svanire dai miei più reconditi desideri.

2004

giovedì 7 luglio 2011

La stagione del salice

A Francesco e Massimo,
e alle “Stagioni del salice”.

Ciò che mi sorregge nei risvegli, quando davanti allo specchio osservo la mia immagine stranita dal sonno della notte, è la consapevolezza di sperare nel caos delle possibilità che la vita può concedere. Anteponendo quest’astratta idea all’incertezza del nuovo giorno, imbriglio per alcune ore lo spettro ansioso che nascondo sottopelle, il malessere vorace che inghiotte l’umore di troppi risvegli. Questa indefinita psicosi che spinge le mie azioni all’altrui dipendenza mi ha invogliato per una volta ad immaginare la prossima stagione estiva nella dimensione nuova di una coabitazione, una coabitazione che avrebbe ampliato il numero d’ore concesse allo svago contenendo le individuali solitudini alla stregua di una vacanza. Di contro un relax festivo di una decade o più, tra viaggi e orde di turisti, avrebbe assunto il bilancio probabile di delusioni e angosce da rientro: anche per questa ragione consideravo la mia idea alla stregua di una nuova maturazione.
Colui che rappresentava al meglio la certezza di dividere un’abitazione per alcuni mesi appena senza troppe ritrosie e fraintendimenti era Mauro, amico di vecchia data, confidente di intimi sfoghi e fido complice di nascoste bravate. Non era la prima volta che progettavo qualcosa assieme a lui, avevamo diviso più volte le stanze di un appartamento, tra viaggi di piacere e periodi d’esistenza in comune. Accertata la sua presenza, appariva fondamentale la compagnia di una terza persona che avrebbe ravvivato le nostre giornate senza commettere l’errore di forzare nella scelta, un posto da riempire a tutti i costi. Tra incertezze e risposte di circostanza che sfiduciavano la serietà di troppi individui, abbiamo considerato l’ipotetica presenza femminile di Anita. L’iniziale esclusione era stata valutata per un eccesso di ritrosia, per una sovrabbondante cautela di disequilibri, d’imbarazzi e conflitti d’intimità precluse; eppure ad una lucida riflessione una donna avrebbe fornito un meccanismo intrigante di differenze ed eterogeneità…
Anita accettò subito, divenendo parte integrante del nostro progetto che curammo nell’equilibrio pesato delle individuali esigenze, si univamo infatti, individui diversi nelle esperienze di vita: Mauro navigato da un’indipendenza familiare di molti anni ricercava un’intimità compatibile con la vita in comune, mentre Anita reduce da anni di vita universitaria sembrava più indulgente nei compromessi; infine io, infarcito d’entrambe le esperienze vissute oltremanica, scisso tra esigenze di ricerca solitaria e irrinunciabili immersioni nella vita di gruppo. L’idea estiva era stata più volte affrontata rimarcando la necessità di considerare l’estate come il naturale proseguo della vita di sempre, degli impegni lavorativi e delle abitudini, definendo la nuova dimora come un tranquillo rifugio non troppo distante dalla città. Questa comunione d’intenti aveva favorito la prospettiva di ricercare una villa al mare con la duplice funzione di rifugio sereno e luogo di ritrovo. Su queste premesse considero ad oggi la ricerca e la successiva individuazione della villa, un colpo fortunato che il destino ci aveva voluto concedere, poiché tra le molte proposte, la “villa del salice” (così l’avevamo chiamata per distinguerla tra tutte le altre) sembrava il miglior compromesso raggiungibile. Un salice piangente posto ad ombra di una vasta veranda, identificava l’impressione rassicurante di quell’angolo di penombra. La villa era divisa da tre stanze, grandi a sufficienza per contenere un armadio e persino una scrivania. L’ambiente comune era unito da un salone che s’affacciava in una veranda ombreggiata appunto, dalle folte fronde di un salice piangente; mentre il giardino d’attorno, era tinteggiato dal verde prato inglese e da recinti di aiuole, oleandri e buganvillee. Per quanto l’atmosfera in sé fosse quella campestre, a pochi metri vi era lo stupore di una nascosta discesa verso il mare con le sue scogliere; laggiù dominava un panorama d’incanto della città, estesa dai pendii delle colline della periferia sino all’antico porto, dove poche navi alla fonda scolpivano la loro sagoma nei commoventi tramonti d’inizio stagione.

La nostra convivenza era cominciata nella prima decade di giugno, immersi in un clima afoso di piena estate, preludio di giorni avvenire ben più caldi ed intensi. Superato l’inevitabile ambientamento, l’immediata percezione del mutato domicilio emergeva nei silenzi notturni o nel rassicurante canto degli uccelli di primo mattino. E nel mentre prendevano forma le nuove abitudini, il calore interiore della comunione d’identità rafforzava l’impalcatura emotiva della nuova vita. Le “riunioni di famiglia” non erano semplici meeting decisionali ove stabilire la posizione migliore per un mobile o un tavolo troppo lungo; quei momenti rappresentavano l’esigenza spontanea di coesione, specie al termine di una giornata, quando ci si ritrovava sotto la tenda protettiva del salice godendo del fresco umido di prima sera. In quei frangenti prendevano corpo le immense discussioni sull’esistenza o sulle scelte intraprese nottetempo: s’aprivano i riposti cancelli dei caratteri, scoperchiando le ragioni di stravaganze e sotterfugi comportamentali, spesso incomprensibili ad un’analisi di mera superficie. Certamente tra me e Mauro la reciproca conoscenza vantava un curriculum di diverbi e puntuali riconciliazioni, nei quali avevo spesso riposto il fondamento positivo d’aver meglio compreso le ragioni d’un amico, nonché la certezza d’aver acquisito ulteriore completezza al nostro rapporto caratteriale. Tale approfondimento mi aveva permesso di giustificare il cinismo con cui Mauro reagiva da sempre alle implicazioni emotive del suo lungo rapporto con Giovanna, rapporto mutato nel tempo in atti pungenti e gesti incoerenti d’affetto. Anita invece, continuava a mantenere la prudente riserva di celare i bastioni del suo essere persistendo nella discrezione del silenzio; eppure nel breve volgere dei giorni, s’era avvertita un’inattesa inversione d’intenti, quando intimamente raccolti, amavamo esternare le agrodolci sensazioni del presente: proprio in quei momenti Anita mostrava già dalle prime settimane, una crescente esigenza di condivisione, specie verso Mauro il cui livello di conoscenza era confinato da anni di saluti formali. Nella sua progressiva apertura, Anita aveva confessato la ragione delle piccate risposte alle nostre celie, quando per goliardia citavamo i nostri molteplici voltafaccia o le vigliacche bugie recitate teatralmente nei ricordi di passati flirt: in quei frangenti, giocavamo il ruolo vanesio di uomini-carogna, d’insensibili seduttori, intenti a rievocare ingiustificate cattiverie. Vi era infatti qualcosa di veritiero nelle nostre parole, che nella rievocazione esprimevano l’immaturità del nostro passato e l’inqualificabile colpa di raccontarli proprio ad Anita che esplodeva nel parossismo puntuale della rabbia. Le sue reazioni furono comprese (a fronte di un necessario chiarimento) esternando le ragioni di passate delusioni, per cui intensità d’affetti aveva minato qualsiasi sconto di fiducia ai disordinati rapporti con l’altro sesso. In lei pareva emergere il disequilibrio di un desiderio di maternità soffocata da relazioni senza apparente significato. Così per quanto l’estetica di Anita trasmetta un impatto di sicura e fredda determinazione, lo scavo interiore nelle ragioni prime di gesti ed azioni, coagulava un’essenza sofferta di rimpianti e amari calici di rassegnazione. Il suo umore, fin troppo simile a quello celato dietro smorti visi di moderne vestali, onnipresenti entità di riti mondani, combaciava nella rappresentazione, alla reazione nevrotica del contemporaneo male di vivere. Tuttavia scindendo i logori stereotipi di preconcetto, svestendo di nuda essenza la personalità di Anita, subentrava un’immagine chiara e ben definita: la farsa dei suoi atti esteriori era la patina confezionata di ciò che provava nel “dietro le quinte” del difficile ritorno al silenzio della propria stanza, quando riapriva le ferite sofferte di un’affollata solitudine.

Sorprendeva nel nostro “ritiro estivo”, l’apparente conferma di considerare la villa come un rifugio dalle inquietudini della vita. Il mio lavoro da imprenditore infatti, non concedeva troppe libertà di svago: il lusso di poter cancellare per alcune ore appena lo snervante logorìo di vicende professionali. Invadente come pochi mestieri, lottavo nella perpetua esigenza di liberarmi dal peso delle preoccupazioni: le commissioni in sospeso con i fornitori, i pagamenti fiscali in scadenza, le beghe contabili e quelle legali, i bilanci non troppo in attivo, e infine l’angosciante prospettiva del futuro... In genere le attività commerciali determinano un rinnovo organizzativo delle vendite e della gestione, ben più frequente di quanto s’immagini, nella speranza che i vitali investimenti occorsi, consentano una sopravvivenza agonizzante per altri anni ancora; poiché l’economia d’impresa ancorata alla crisi dei consumi, ed unita ad un contesto di locale stagnazione, ne decreta l’inevitabile collasso finanziario, subentrando così, un logorante gioco al massacro con cui convivere per troppi anni: da quando il peso delle responsabilità s’era accentrato repentinamente tra le mie mani. Di certo il mio mestiere appartiene al mito sempreverde della ricchezza e del buon vivere, unito ad un’immagine d’ingordigia e vessazione dei dipendenti; eppure in questi luoghi comuni, in questa rappresentazione preconcetta d’uomo di successo, non avverto comunanza. La classe imprenditoriale la considero come una categoria di genti che abbia le innate doti della sopravvivenza e del rischio: una mera lotteria, cui molti sopravvivono grazie a poco leciti artifici finanziari. Così, se la romantica visione del mestiere che un tempo era di mio padre, riempiva d’orgoglio l’animo adolescente dell’unico figlio; dopo il suo volontario abbandono per raggiunti limiti d’età, ho ritenuto l’eredità un fardello insostenibile. Il moltiplicarsi delle difficoltà, l’imperterrito avanzare di un’insoddisfazione ormai del tutto matura, sconvolgevano il mio essere e l’equilibrio necessario su cui sorreggere l’esistenza. Dunque nel salubre ricovero della villa, avevo stabilito il metro della mia emotività con una consapevolezza ancora esente dal freddo coraggio di compiere scelte drastiche: cambiare del tutto vita.
Questa affermazione è fin troppo spesso abusata nonché carica di speculazioni, per cui superficialmente si afferma di “voler cambiare vita” quando si è stanchi della routine quotidiana, quando per eccesso di zelo si vorrebbe accantonare, anche per un breve periodo, le noiose certezze della propria esistenza. Diversamente, il significato personale con cui io interpreto il “cambio di vita” è una modalità definitiva e irreversibile di abbandono della professione. Così ogni qual volta mi capitava di raccontare il mio desiderio, l’interlocutore di turno poneva subito la lecita contro-domanda: «E poi cosa farai? Come vivrai?»
A tale quesito ritengo di non aver mai trovato risposta definitiva, poiché le idee ed i sogni, conterebbero variabili mai troppo vagliate. Il conflitto di prospettive che da sempre ponevo su questo tema, era ulteriormente accresciuto dall’instabilità emotiva con cui affrontavo le mie scelte di vita. Coerente al mio carattere, le indecisioni hanno sempre interpretato al meglio il fragile ruolo del mio essere; laddove iniziavo qualcosa finivo dell’altro per riprendere daccapo una nuova scelta: così è stato negli sport, così è avvenuto persino nelle relazioni affettive, mai una certezza, mai una decisione convinta. Tuttavia è necessario chiarire che in questa mia indeterminazione, mantenevo saldi aspetti mai valorizzati del mio carattere. A onor del vero, credo di poter affermare che una mia dote innata sia concretamente riposta nella letteratura che sin da piccolo induceva una stupefacente attrazione verso i libri. Allora amavo collezionare tra gli scaffali della mia stanza, libri di fiabe e racconti che genitori e parenti mi regalavano, i quali dopo averli divorati anche più di una volta, venivano riposti in bella vista, in attesa del regalo successivo. Tempo dopo, scoprii il piacere intimo di scrivere un diario di sensazioni con cui cullavo il mio spirito sognatore, un diario, che nascondeva il germe di una passione per la descrizione e l’analisi delle quotidiane vicende; esso era il personale sfogo dove esorcizzare le adolescenziali inquietudini, riponendo nell’intima indagine degli accadimenti, l’evoluzione rapida della mia maturità. Poi però, colto da un immotivato paravento di pigrizia ed infantile pregiudizio, ho ucciso precocemente quell’amore per la fantasia che aveva arricchito di sogni gli anni verdi della fanciullezza… Riposti i libri ed i diari, preferii cogliere l’effimera scorza di vitalità nelle molte amicizie e nei primi languori d’amore. Sicché col senno del poi, scevro da pregiudizi, ho riscoperto l’esigenza di perdute qualità, per cui mi sono riappropriato di fantasie ormai adulte; è stato l’aiuto di Anita, la perseveranza di consigli e la sua gratitudine ad introdurmi nella percezione nuova delle parole, nell’espansa armonia dei vocaboli di poeti ignorati e scrittori mai letti. Così tra riflessioni e svolte interiori, ho cominciato ad acquisire l’amore per la lettura: prima di dormire, o nei sempre maggiori istanti di riposo domenicale.
Tornando al concetto di “cambio di vita”, la mia evoluzione interiore non supportava solo materiali conquiste di tempo libero, ma un concetto saldo di esistenza vissuta senza disillusioni o vani riempitivi. Ciò che materializzavo di volta in volta, era la visione concreta di una quotidianità vera. Provavo ad esempio, ad analizzare le frequenti sortite, le vane speculazioni di divertimento cui da sempre mi ero sottoposto, accorgendomi che le mie sere a volte erano il palliativo di una solitudine interiore. Così nella consapevolezza delle azioni, era sorta tra le confidenze di Anita e Mauro, la percezione nuova del mio essere, la profonda comprensione di me stesso e delle mie paure; grazie a loro cominciavo a comprendere le ragioni di certi atti che parevano non ammettere una causa prima. Superata infatti ormai la soglia dei trenta anni, si palesa uno scollamento di intenzioni tra il vissuto anagrafico e quello interiore, di una volontà cieca che giustifica l’agire con il pensare, lasciando emergere la pregnante ansia d’inesistenti relazioni sentimentali.

Opposto al mio carattere, Mauro incarnava l’apparentemente indole pacificata tra il desiderio e la volontà. Impiegato presso uno studio contabile, con il riposto sogno di uno sviluppo possibile del suo mestiere, superava le quotidiane frustrazioni nel sentimento stabile per Giovanna e nell’indole appassionata di amanti d’occasione. Egli possedeva il fascino irresistibile d’un innato savoir faire con cui colpiva la debole nota delle femminili sensualità. Di questo dualismo di vite non avevo mai vissuto le reali conseguenze, poiché Mauro aveva da sempre gestito le sue “scappatelle” con assoluta discrezione: salvo saltuarie confidenze tra uomini, cui realtà e finzione, a volte si legavano esasperandosi. Ma nella convivenza estiva, la persistenza d’un vizio duale estendeva nell’inganno la complicità dei nostri comportamenti quando in assenza di Giovanna, giungevano rumori di visite notturne o ammiccamenti d’ospiti non sempre graditi. In quei frangenti sopraggiungeva inevitabile il turbamento della nostra consapevolezza… La cortese simpatia di Giovanna, mal si conciliava con il tacito assenso cui io e Anita ci macchiavamo impunemente; Giovanna pareva mostrare le caratteristiche proprie d’una donna perfetta: in lei la bontà s’univa alla solidità d’un carattere sobrio, rendendo le sue visite un piacevole incontro. Sicché ogni qual volta assistevo alle premurose attenzioni di Mauro, mi chiedevo lecitamente quale esigenza giustificasse il vizio fugace di un rapporto ulteriore. Di certo l’argomento non era mai stato troppo lindo, poiché l’interessato rifuggiva lucide ed oggettive spiegazioni che spesso richiedevo più per chiarezza che per invadenza. Così finivo col restare impigliato in una vaga parvenza d’idee, supponendo una logica sin troppo istintiva per poter essere spiegata col criterio della razionalità: forse il concetto stesso di tradimento era un pensiero ignorato alla sua mente, con il comodo della cieca volontà di realizzarne il desiderio. Il sentimento per Giovanna probabilmente era autentico, seppur manipolato dall’esigenza d’un appagamento sensuale con donne prive di anima; eppure risultava difficile la comprensione di tali scelte se non nel disequilibrio di un’insoddisfazione di profonde radici. Ma per quanto provassi a comprendere le sue motivazioni, confidavo in un’etica del rispetto che frenava ogni giustificazione possibile: nell’indole umana l’appagamento dei sensi alla sottomissione della volontà è, a parer mio, un’inevitabile guerra che impone l’inscindibile rispetto di secolari regole. Tale era il pensiero su cui fondavo la mia etica esistenziale, combaciante nei contenuti con quella di Anita, seppur più rigida e conservatrice di me. Tuttavia, mi capitava sempre più spesso di ragionare (a paragone) sulle motivazioni istintive dei miei comportamenti con quelli di Mauro, ipotizzando la meta comune di una lungimirante felicità. Avveniva da troppi anni ormai, di ritrovarmi tra le braccia di donne che amavo al più, per il fascino estetico del viso, per la silhouette perfetta del corpo, o per un’improbabile e quanto mai forzata comunanza di vedute. In loro cercavo la speranza perduta di una pace con me stesso, d’un equilibrio tra mente e corpo che per alcuni giorni m’illudevo di appagare nell’invenzione artefatta d’una relazione. Ma mentre Mauro sembrava vivere la sua disarmonia nell’apparentemente ricerca di pacate soluzioni transitorie, io continuavo ad affannarmi nel desiderio effimero di una precaria ingordigia sensuale; così il significato delle sue azioni, quello mio e di molti altri conoscenti, appariva come un’ossessione verso la completezza, uno sbandamento tra le indeterminazioni dell’esistenza e l’utopia di uno stato irraggiungibile di atarassia. Credo infatti, che a spingerci verso la forzatura dei sentimenti sia l’istinto di una sopravvivenza migliorata: quindi giudicare le scelte di Mauro mi appariva invero un gioco scorretto, poiché per altri versi, la trave del mio occhio faceva apparire ridicola la pagliuzza del mio amico. Riducendo ai minimi termini il ragionamento, provavo a non giudicare più le scelte altrui se non nel metro psicologico d’un ipotetico analista. Quali che siano i drammi della nostra interiorità, quali le storture o le strategie inefficaci del nostro ego, la gestione dei comportamenti appare come un vademecum psicologico con cui affrontiamo questo mondo, seppure di esso proviamo da sempre a nascondere con paraventi di finzione, la reale entità del nostro male di vivere…

Trascorso più di un mese, la nostra vita sembrava aver raggiunto la stabilità positiva dell’abitudine, un’abitudine che ci faceva considerare quelle pareti e quel giardino come parte integrante della nostra giornata; al ché il primo periodo in villetta s’era mantenuto piuttosto tranquillo: un po’ per pigrizia, un po’ per distrazione, la “villa del salice” era divenuta una sorta di dormitorio, dove ci si ritrovava (a parte i pochi minuti del mattino) all’ora di cena. Dunque sembrava ormai giunto il tempo di aprire il nostro rifugio alla condivisione dei tanti amici organizzando un party per l’estate… La festa nasceva dal contributo diretto degli invitati da cui sarebbe provenuto un apporto di musica e alcool; quanto al numero dei convenuti, il calcolo suggeriva l’esaurimento di ogni spazio disponibile in villa, avendo concesso l’invito agli “amici degli amici” senza il vincolo di troppe restrizioni.
Il nostro impegno organizzativo fu ripagato da una serata indimenticabile, amplificata dall’ebbrezza di unire in un sol luogo amicizie eterogenee legate da un rapporto fiduciario di amicizia e stima. Vi è tuttavia da considerare anche un aspetto di mero autocompiacimento nel concedere la propria dimora all’altrui ospitalità, poiché divenne spontanea la vanità di assurgermi a protagonista e reggente di una corte di amati lusingatori. Infatti oltre alla duplice veste di coinquilino e direttore improvvisato di un’umile orchestra di posate e bicchieri, amavo compiacermi nell’accogliere gli invitati con clamore esibizionista, oppure lasciarmi coinvolgere dalle sciarade di ex fidanzate, le quali oltre ai monotoni complimenti presentavano persone su persone, di cui al conteggio finale avevo perso il numero e la memoria dei nomi. Eppure nella confusione di volti e strette di mano rimasi colpito da Medea, una ragazza che oltre all’omonimia d’una tragedia greca possedeva la grazia e la bellezza d’una ninfa del mare. Secondo uno studio inglese, un uomo sceglie una donna stabilendone qualità attrattive ed estetiche con un tempo variabile di alcuni secondi; così se in questo frangente non subentrano modifiche evidenti all’impressione iniziale, nel tempo medio di quindici secondi tra la stretta di mano e la mia presentazione, ebbi l’onore di inserire il mio caso nel range della casistica citata. Così nel descrivere la circostanza della sua conoscenza, devo anche confessare l’immane vergogna provata in quel momento. Quando Laura (amica ed ex fidanzata di passate vicende) m’introdusse con la celia di sfrontato Don Giovanni, la mia reazione si rivelò opposta alle attese, scollegando per un istante il cervello dalla realtà, balbettando un qualche saluto fuori luogo: «Ciao, io sarei Chicco». Forse è avvenuto grazie all’inevitabile scenata di sorrisi iniziali, perché il mio infelice biglietto da visita si tramutasse in un fruttuoso recupero di simpatia; anzi, credo proprio che il turpiloquio di autoironie con cui avevo frenato il mio disagio incipiente, avesse favorito un’immediata ed inattesa confidenza. Per quanto i suoi ventitré anni differissero dai miei di ben due lustri, le movenze feline da neo-donna, il tono invitante della voce e l’intenso sguardo da indagatrice, emanavano uno charme da perfetta maliarda… Questi aspetti, accompagnati dalle disinibizioni dei primi fumi d’alcol, decretarono una miscela tattico-istintiva che spegneva ed innescava, la miccia delle mie incoerenti azioni.
Distratto dall’arrivo degli ultimi invitati, volli soffermarmi un attimo con Mauro per commentare in brevi parole l’esigenza di un sostegno psicologico al mio ultimo trasporto emotivo; ma egli precedette ogni mio proposito con un cenno istintivo del volto che invitava ad osservare una ragazza seduta sul divano del giardino: «…è un’ex-collega di lavoro, ventisette anni, commercialista: ci siamo rivisti qualche giorno fa mentre andavo in ufficio. Non mi ha mai concesso troppa confidenza, eppure quando le ho chiesto (quasi per gioco) il suo numero di telefono non ha tergiversato: credo le farò presto una visita…» disse con un sorriso di compiacimento. «Mi sembra un bel tipo… Magari se ti facessi dare anche il numero dell’amica accanto, a giorni una qualche visita potrei farla pure io!» Era un vizio il nostro, di ridurre impudicamente ai minimi termini i discorsi in tema di donne; in chiave cifrata, il linguaggio si applicava soprattutto a coloro che ritenevamo più lascive, marchiate da dicerie di fonti anonime come assidue amanti d’incontri occasionali. Così con lo stesso spirito, proseguendo nei contenuti del discorso precedente, Mauro aggiunse: «Sembra che qualcuno stanotte dormirà con Anita…» In un angolo del giardino, già da alcune ore Anita s’intratteneva con un ragazzo che non avevo mai visto, un idiota senza stile né coscienza; un giudizio il mio che nasceva dal palesarsi di elementi esteticamente banalizzanti della sua personalità, come lo sfoggio infantile di muscoli da palestra, di gesti non troppo posati e d’un gusto cafone nell’abbigliamento. Confesso inoltre, che più d’ogni altra cosa, m’infastidiva la raggiunta confidenza di abbracci e baci che Anita raccoglieva con sorrisi enfatici. Così nell’ipocrita veste di amico avevo deciso di sciogliere la personale curiosità di conoscerlo realmente onde chiarire se la mia impressione da lontano corrispondesse a quella da vicino. Bastarono poche parole affinché Paolo (così si chiamava), confermasse la mia perspicacia di giudizio con un entrée en scène di luoghi comuni e inciampi d’un italiano misto a dialetto. Questa conferma palesava per l’ennesima volta la personale tesi secondo cui le donne posseggano uno spirito masochista di dominio verso uomini mediocri: eterei partner da coartare secondo astrusi voleri; seppur in questo caso, tale scelta si collocava forse, come reazione istintiva all’epilogo infelice delle sue relazioni. Eppure consideravo il suo atteggiamento un infamante gioco al ribasso con cui svalutava gli uomini e persino se stessa, al fine di coprire le sofferenze possibili di una rinnovata sconfitta. Così nella scelta di un’attrazione puramente estetica, Anita avrebbe potuto dominare le modalità di un rapporto che riempisse meglio i tempi vuoti delle sue giornate...
Abbandonata Anita con le sue scelte, mi ero lasciato distrarre dai tanti amici che da diverso tempo non frequentavo: ex soci d’azienda, ex compagni di viaggio, ex amici fedeli, ex ricordi dolce-amari del tempo perduto… Eppure tra le mille disattenzioni della festa il mio pensiero tornava fisso su Medea, che seduta accanto alle sue amiche, partecipava distrattamente al rito del chiacchiericcio. Confesso che l’immagine che stavo costruendo di lei amplificava un interesse che m’invogliava a vestire ulteriormente il mio ruolo di adulatore cortese, scevro per una volta, dalla finzione scenica di concedere complimenti per mera finalità sensuale: per una volta infatti, ogni mia azione era alimentata da sincere lusinghe, determinando un perfetto ed inatteso savoire faire, un’audacia e una determinazione impeccabili: finché nella risacca agitata di scherzi e divertimenti, ho ottenuto il codice cifrato del suo telefono.
La nuova conoscenza non era certamente un evento epocale nella mia esistenza: di certo non era la prima donna a cui chiedevo il numero di telefono, anche se questa volta, il mio gesto sembrava sorretto da una piena convinzione e da un’irresistibile voglia di mantenere stretto il filo sottile della sua personalità; o forse mi ero lasciato cogliere dal fiat di una piccola sbandata…

Nei giorni avvenire, il volto di Medea era divenuto un dolce tormento, il languore d’un improvviso e genuino sentimento, raffreddato semmai, dal razionale autocontrollo di non voler commettere errori. In effetti già dal giorno successivo alla festa, avrei voluto delittuosamente agire d’istinto, inventandomi una scusa qualunque pur di ascoltare la carica sensuale delle sue parole. Avevo tuttavia preferito abbracciare la personale regola empirica che professa cautela, il mantenimento di un silenzio armato prima di sferrare un attacco; questa sciocca regola che saprei giustificare col metro di concedere più tempo al desiderio e poco all’istinto, conserva secondo me, una sua validità logica. Infatti l’attesa forzata di quei giorni, fu un atto di cautela contro il trasbordare repentino d’una passione che avrebbe rovinato ogni cosa; è pur vero che a produrre bile d’angoscia è l’indeterminatezza dell’altrui pensiero, l’incertezza di non aver chiare le intenzioni della donna da corteggiare; e dunque non sapendo ancora quali sentimenti Medea provasse per me, valutavo mentalmente ogni ipotesi: dalla finalità sessuale, sino all’autoinganno della perfetta recita d’una sera. Così distruggendomi in congetture, dopo alcuni giorni sono giunto all’esame della prima telefonata…
Quando la personale costruzione di fantasie raggiunge nella propria mente un esasperato livello di saturazione, la realtà oggettiva degli accadimenti sembra essere percepita come un evento inatteso; Medea aveva mantenuto la sua cordialità, proprio come l’avevo conosciuta quella sera, smantellando già dal primo incontro la tempesta di dubbi che m’aveva assillato per giorni interi. Poi dopo un tempo breve di poche sere, la certezza di un corteggiamento di sorrisi e carezze sciolse ogni riserva nella passione repentina del nostro primo bacio.
I primi giorni della nostra unione, li avrei scolpiti in un album di sensazioni da rivivere ogni qual volta rinnego i dolceamari equilibri dell’esistenza. Proprio come avviene rare volte nella vita, mi immersi in un reale sentimento di passione che nel disequilibrio dei ruoli esigeva continue conferme d’affetto; quest’impeto decretava uno scivolamento d’umore per futili cause, mutando le mie giornate in algebriche moltiplicazioni di gelosie. In quei momenti sorgeva la convulsione di chiamare Medea, di sapere dove fosse: se intenta all’impegno gravoso dello studio o ad una presunta farsa d’inganni e tradimenti. Vi era forse una qualche ragione patologica atta a scatenare un impeto del tutto inedito, sconosciuto a me stesso e agli altri: una gelosia accesasi morbosamente senza ragione apparente. Così mantenni un sentimento di conflitti e passioni che certamente Medea mal sopportava, rifuggendo sempre più spesso nell’impeto distruttivo dell’ira.
Avviene spesso che i rapporti d’affetto paiano mutare di forma nell’atto stesso del proprio amore, determinando il contraccolpo della disaffezione, l’inatteso travaglio d’un incomprensibile epilogo senza ritorno alcuno; tale divenne la mia condizione, quando percepii la disgregazione compiuta di atti indecifrabili, la risposta allarmante di un improvviso e quanto mai repentino tracollo sentimentale. In poche settimane Medea non era più la stessa donna, non era più la dolce ragazza conosciuta la sera della festa in villa, la stessa donna che ricambiava in sguardi l’attrazione compiuta del primo incontro. I suoi gesti erano diversi, atti spesso a contenere la foga di un necessario recupero: forse era per questo motivo che rifiutava i nostri incontri e gelava d’indifferenza il mio desiderio d’amplesso. Ammetto che l’intera vicenda mi aveva scosso, non solo per la rapida evoluzione degli eventi, ma soprattutto per la svilente sensazione di un declino senza soluzione. Ciò che accusavo in Medea era il taglio deciso di qualsiasi ripensamento, senza ulteriori chiarimenti, senza la delicatezza di concedere alcun alibi di compassione; e così additato sul banco dei condannati, mi sentii come un cucciolo abbandonato da un padrone ingrato che alla porta di casa mi abbia lasciato con queste lapidarie parole: «Io e te, non abbiamo mai cercato la stessa cosa…»
E’ difficile comprendere in appieno le scelte di una donna, specie se il comportamento occorso sia stato d’affetto indistinto e morbosa condivisione. Reputo tuttavia d’aver commesso l’errore di considerare Medea quel “tutto” attraverso cui cancellare il “nulla” del passato: relazioni con cui avevo tergiversato senza troppe responsabilità ed emozioni. Così apparentemente, scontavo il contrappasso di un destino che si ribellava ai troppi inganni del tempo andato, quando ignoravo quali effetti possa produrre il dolore di un innamoramento bruscamente interrotto...

L’affaire Medea aveva inevitabilmente determinato un disfacimento nei nostri equilibri di coabitazione. Più volte Anita e Mauro avevano rimproverato il mio declino, le mie disattenzioni, poiché nelle mie rare apparizioni spendevo troppo tempo tra telefonate di chiarimento e congedi di notti sempre più corte. In effetti nelle ultime settimane avevo smarrito le fila degli accadimenti, oscurando in cecità le sotterranee vicende occorse tra Anita e Mauro…
Quasi dimentico del deficit di stima causato dai preliminari del flirt tra Anita e quel tale Paolo; avevo riposto in un cantuccio della mia mente ogni ulteriore considerazione se non quella che i giudizi formulati al soldo di singoli accadimenti valgano poco, quando non si unisce il fondamento necessario d’una visione ampia dei caratteri e delle attitudini individuali. Questa considerazione è del tutto necessaria se non si vuol subire il discredito della propria ritrattazione, l’offesa intellettuale d’un giudizio con insufficienti elementi probatori: tale infatti fu la mia colpa, giungendo presto a giudizio, ignorando i contorni di motivazioni ben più grandi. Negli ultimi giorni avevo certamente notato le crescenti ansie di Anita e gli inusuali silenzi di Mauro, considerandoli nel complesso come segnali di una crescente insofferenza alle mie colpe. Così avevo adottato la scelta mediata di vestirmi di discrezione: un po’ per imbarazzo, un po’ per distrazione, avevo preferito tacere, attendendo l’occasione giusta per esprimere il rammarico del mio comportamento. Così solo dopo essersi conclusa la burrasca di pensieri che m’aveva investito di sensi di colpa e dubbi laceranti, potevo ritenermi in grado di ascoltare gli altrui problemi con mente più serena. Tempo dopo infatti al ritrovo improvvisato d’una birra, nell’intimità domestica di un raro momento di quiete, un secco: «Come stai?», poteva caricarsi del giusto significato interiore, spogliato della sciocca consuetudine d’una replica piuttosto vaga… Proprio in questo modo era cominciata una lunga discussione tra me e Mauro, nell’esigenza di riprendere un dialogo interrotto da settimane.
Dopo aver sostenuto un processo sommario alle mie mancanze, unito ad accuse di morbosi eccessi a contrasto degli errori con Medea, si era avviato un ragionamento sull’insostenibilità prolungata della condizione da status single che oltre ad abbracciare la quotidianità della mia coscienza, piombava nell’argomento comportamentale di Anita. Con mia sorpresa, Mauro era a conoscenza di molti aneddoti riguardanti la nostra amica: tanti, talmente tanti da far scattare subito la molla di un dubbio; un dubbio un po’ invidioso e un po’ irato, per ciò che oramai attendevo dalle sue parole… Quel tale Paolo, era stato una parentesi breve di pochi giorni, un disastro annunciato su cui Anita rimpiangeva gli errori e le fragilità di donna non più ingenua. La giustificazione a tale scelta si palesava nel procedere a ritroso su accadimenti a me ignoti che solo le confidenze di Mauro potevano svelarmi. Precedente ai giorni della festa il pathos d’un bacio rubato alle sottili labbra di Anita ruppe gli indugi di una manifesta ed inopportuna voluttà, determinando nella convivialità dello stesso tetto i fremiti di reciproche malizie e puntuali cadute. Eppure nel meccanismo comodo di un rapporto misto tra complicità e desiderio, Anita cominciò a dilagare nell’inatteso fuori programma di pretese sentimentali, seguite poi da ingiuste accuse di maschilismo. Tale comportamento sorgeva nell’instabile metamorfosi di una stagione luminosa oscurata dallo strazio di giorni senza troppa lode: così l’idea assurda di sfaldare gli equilibri di una relazione sorta per caso, diveniva una giustificazione di compromesso alle molteplici anime di se stessa. Tuttavia in questo mutamento d’intenti, ogni ipotesi diversa da una brusca conclusione era lo scandalo di un’unione senza futuro, di un sentimento senza soggetto. Quindi nella chiarezza interiore di non desiderare alternative senza le certezze di Giovanna, Mauro aveva già respinto ogni diversivo, considerando Anita il palliativo di fugaci fremiti extra-coppia. Dunque con queste motivazioni sarebbe irrimediabilmente crollata ogni velata apparenza di futuro, chiudendo in una fortezza d’indifferenza l’avventura imprevista della loro estate…
Questa reazione aveva indotto Anita a rivolgere contro se stessa l’illusione ripetuta dei suoi sentimenti, interiorizzando l’esigenza di usare la ragione contro i danni delle proprie passioni. Tuttavia giunta improvvisa l’idea della festa, un’opposta conversione d’idee l’aveva spinta ad alleggerirsi d’ogni fardello morale: non più processioni di rimpianti ma una reazione decisa contro un fato apparentemente avverso. Un po’ per vendetta, un po’ per autoannullamento, Anita aveva cominciato a svendere ogni ritrosia verso uomini come Paolo: con cui fare l’amore come fosse un calmante, da assumere a piccoli sorsi pur di scacciare le quotidiane ansie.
Personalmente ho sempre sostenuto che nei dissapori tra due persone vi sia da considerare un concorso di colpa di entrambe le parti, poiché ognuno contribuisce nel comportamento ad inasprire ulteriori reazioni; sicché consideravo Anita rivestita di una doppia veste, da un lato fragile vittima degli eventi, dall’altro approssimativa autoingannatrice di se stessa. Con queste premesse tentavo nell’autoinvestitura di paciere, a ricucire ciò che s’era sfaldato tra le pieghe di incomprensioni e astii prolungati che avevano annullato ogni comunicazione tra i due contendenti. Nel ripetuto tentativo di avvicinare quel tassello mancante di dialoghi e confidenze, parlavo spesso ad Anita con lo sprone continuo di risollevarne il morale e la vitalità. Fu un lavoro di lenta fiducia quello a cui approdai, giungendo dopo alcune settimane a quell’intima conoscenza in grado di accedere alla cortina di filo spinato con cui celava da sempre il suo essere. Il mio interessamento verso Anita non era una scommessa da vincere con me stesso, né un obiettivo di mero vanto, esso era da considerarsi come l’esigenza di conoscere meglio una persona con cui condividevo lo stesso tetto; certo bisogna aggiungere a questa superficiale motivazione, la spinta emotiva di una voluttuosa simpatia sorta tra le cordiali consulenze libresche e le carnali provocazioni del suo corpo. Come in un mix di sacro e profano, andavo scoprendo in Anita la dimensione nuova di una donna esigente, desiderosa di una maturazione stabile della propria vita: da un lato l’incertezza del proprio mestiere, le cattedre a scadenza e l’annuale lotteria della nomina successiva; dall’altro lo svilimento della sfera maschile, interpretata con le negative accezioni d’un ensemble d’amorali individui senza redenzione. In questa matrice interpretativa giorno dopo giorno affondava il sogno ormai vago di una maternità, e la certezza difficile di una famiglia da costruire. Era dunque il calpestare continuo dei sentimenti, la demonizzazione degli affetti come cura da cui guarire, ove scaturiva la ricetta d’intenzioni con cui Anita affondava in una personale odissea di rimpianti.
A fronte di tali considerazioni avevo ricucito il loro strappo, quando finalmente costrinsi entrambi ad un gesto di conciliazione che sancì in un dopocena, l’armistizio delle reciproche debolezze…

Per quanto il nostro calendario di sensazioni consideri i giorni successivi al ferragosto come appartenenti allo stesso mese in cui si concentrano le principali ricorrenze estive, il clima psicologico e atmosferico che ne segue è ogni volta ben diverso; dopo il quindici di agosto sembra scendere una cortina, un sipario grigio che delimita il passaggio brusco da una stagione all’altra. Eppure sino ai primi giorni d’ottobre, dalle nostre parti il sole è ancora caldo, le giornate sufficientemente lunghe per percepire l’inganno di considerarsi ancora nel mese di giugno. In effetti, il superamento di questo confine psicologico rendeva ansiosi i miei giorni, riproponendo come ogni anno, la solita angoscia stagionale; seppur coccolato dall’idea di ulteriori settimane di conforto comunitario prima del nostro distacco, sentivo in realtà il peso conclamato d’un altro aspetto della mia esistenza: l’avanzamento di un altro anno ancora. Il sopravanzare del tempo determina un sempre maggiore distacco da quell’era dei venti anni in cui l’esigenza sembra solamente quella di guardare avanti rispetto al presente; ma quando si è giunti ai trenta l’esigenza s’inverte, guardandosi indietro verso un’età che non esiste più… Questa sensazione non è da considerarsi come il timore prematuro della vecchiaia, bensì la consapevolezza del trascorrere del tempo, la malinconica affermazione che il sopravanzare dei giorni sia da demerito alle proprie scelte; l’autunno infatti, sembrava rievocare il freddo ritorno del passato, il riepilogo umorale di giornate piovose, di lunghi frangenti in cui la solitudine pare espandersi come un’onda d’incertezze. Così inevitabilmente percepivo il mio status single come una sconfitta di cui vergognarsi, specie ad ogni cerimonia nuziale, cui sempre più spesso venivo invitato da coetanei in piena svolta di vita; nei mesi avvenire infatti, avrei dovuto assistere a diversi banchetti di amici che in un modo o nell’altro, restringevano il cerchio della mia sopravvivenza ad un sempre più sparuto gruppo di consimili. Di certo non m’influenzava troppo l’idea di non avere tra le mani un matrimonio come protagonista, bensì la prospettiva che il presente prossimo fosse influenzato da scelte d’accomodamento, da donne che sempre più svuotavano di senso la mia capacità di sedurle. Forse la mia idea di vita necessitava del passaggio fondamentale di un camaleontico mutamento di scelte che possa determinare una tregua con me stesso e un approccio diverso con gli altri; forse il protrarsi di questa impasse, la crescente sensazione di disamore da tutto era un purgatorio da scontare, prima di esplodere nel benessere di un’esistenza di cui ci si senta protagonisti e non spettatori. A fronte di tali considerazioni, speravo di convertire l’ultimo scorcio di vita in comune con un periodo di transizione, che potesse metabolizzare le fondamenta di un progetto d’esistenza più ampio e solido. Desideravo dunque una stabilità emotiva duratura che determinasse, nel mio stesso approccio alla vita, la certezza di non soffrire pentimenti. Riguardo alle donne ad esempio, avevo maturato l’idea che la disperazione di sentimenti-perditempo non riuscissero più a coprire il disagio di un’esigenza d’appagamento. Ad oggi il vestirmi di propositi mutevoli supporta la dolorosa scelta di giungere finalmente ad un bivio, ove stabilire il metro nuovo dei miei giorni. Poche settimane sarebbero bastate, prima di realizzare concretamente la dismissione sofferta della mia azienda e con essa il magazzino di angosce e frustrazioni che conteneva al suo interno.
Dopo aver apposto l’ultima firma che ancora mi vincolava al patrimonio di pensieri, un’immediata sensazione di libertà si era impadronita di me, esente per una volta, da quei dubbi leciti di una volontà di tornare indietro, di ripristinare il passato. Sicché davanti ad un presente nuovo, avevo cominciato a ricostruire me stesso nella gestione adeguata del mio tempo e della mia identità. Ho cominciato a guadagnarmi la costanza della scrittura, impadronendomi presto di quella nicchia di desideri che realizzavo solo leggendo le mie parole o quelle scritte dagli autori d’ogni epoca. Quanto alle prospettive, riponevo sino al termine della coabitazione la pace nevrotica di ciò che sarebbe avvenuto, delle realizzazioni future e di un nuovo lavoro…

Giunti al termine della “stagione del salice”, l’abbandono della villa appariva come un risveglio violento, un sussulto improvviso. Tale sensazione era sopraggiunta immantinente mentre svuotavo il contenuto dei cassetti della mia stanza per trasferirli nella loro naturale dimora; in quei gesti meccanici, mi abbandonavo in pensieri a ritroso che ricomponevano il denso sapore degli eventi, la rievocazione spontanea di un legame metafisico tra gli oggetti e il tempo trascorso. Dalla finestra della mia stanza rimembravo il primo sapore del risveglio sotto un nuovo tetto, accorgendomi allora, di come possa apparire diverso il mattino se al posto dei rumori di strada si ascolti il silenzio della campagna. Così spontaneamente ad ogni risveglio pareva amplificarsi un senso di buon umore, anche di lunedì mattina; poiché il buongiorno sincero dei coabitanti vale mille domeniche di solitario ozio casalingo. Nella colazione poi, ci si coccolava di cortesie tra un biscotto assaporato col caffè e latte e il mesto suono di una stazione radiofonica, commentando la serata del giorno precedente o le aspettative di un nuovo appuntamento con una commessa di banca. Oltre a ciò, si univa il senso solare dei giorni, la calura invitante delle mattine, la frenesia di uscire presto dal lavoro per tornare nuovamente in villa, essendo attesi dall’inaugurazione di un tuffo nel mare di fine giorno. Forse era proprio l’insistenza gradevole delle domeniche mattina in spiaggia, o quei sabato pomeriggio trascorsi tra gli scafi del circolo velico, a convincermi che il benessere di una persona passi attraverso la realizzazione di un qualcosa che renda libero il proprio spirito. Dunque la successiva scelta di dedicarmi al settore nautico, alla compravendita di barche ed accessori, aveva certamente le sue fondamenta in questi mesi estivi: poiché mai avrei supposto una tale deriva di competenze lavorative…
Anche Mauro era cambiato, esigendo minori distrazioni dal solito tran tran: forse perché le nevrosi lavorative avevano ceduto il passo ad una sensazione di ritrovo con se stesso e con Giovanna, oppure perché i problemi con Anita e le mie successive considerazioni, le accuse pacate di leggerezza, lo avevano indotto a frenare le sue borie da scavezzacollo. Di certo aveva vissuto la nostra comunione d’esistenze come una stagione d’elezione, specie quando si felicitava delle soddisfazioni culinarie di una nuova ricetta della domenica, grazie ai complimenti degli invitati di turno.
Anita invece era stata una rivelazione, una donna che certamente non aveva mutato il suo essere, ma che aveva scoperto la possibilità di condividere con gli altri delle emozioni dapprima represse in barriere di pregiudizio e timidezza. Certo, reputo innegabile l’accrescersi ulteriore di una mesta simpatia nel corso della stagione; eppure abbiamo perso le tracce l’uno dell’altra, dispersi tra le consuetudini quotidiane ed i conflitti interiori, del tutto incompatibili con le nostre vertiginose aspirazioni.
Infine il sottoscritto, liturgicamente compromesso dalla scelta di rievocare in queste pagine l’atmosfera unica di un tempo perduto: la gioia interiore di scrivere parole che inconsciamente desideravo fissare come un tesoro ritrovato in fondo al mio essere, come un’arte che ancora non sapevo di possedere… Tuttavia nel trascorso di troppi mesi, rimpiango l’assenza di quell’intima comunione d’esistenze che nell’incrocio di idee, sentimenti e trasporti emozionali, ha arricchito di germogli, il salice interiore delle mie stagioni.

maggio 2005 – giugno 2006

sabato 2 luglio 2011

Parlamento di Londra, effetto di sole attraverso la nebbia – Claude Monet

13/1/2000
E’ come un asfittico morire d’una nebbia di celate architetture tradizionali e prati verdi. Il vermiglio Tamigi non è stato mai tanto triste, mai come ora ha perduto la sua identità acquea per colare sulle setole d’un pennello metafisico. Vorrei sorriderti, Londra…

venerdì 1 luglio 2011

L’inquinamento Luminoso

Il problema
Il problema dell'inquinamento luminoso fa parte delle tante forme d'inquinamento: ossia un'alterazione degli equilibri biologici dell'ambiente; proprio come avviene con: l'inquinamento atmosferico, marino, acustico, ecc.
Definiamo innanzi tutto cosa sia l'inquinamento luminoso. Esso è caratterizzato dall'uso indiscriminato di fonti luminose: fari, lampade e luminarie in genere. Le città a tutt’oggi sono illuminate a “giorno” per dare a tutti una sensazione di progresso e di prosperità. Ma un uso senza precise regole (infatti non esiste ancora una legge nazionale in Italia per regolamentare l’illuminazione pubblica), ha finora permesso d'illuminare l'ambiente notturno in modo indiscriminato, creando un notevole spreco d'energia elettrica nelle nostre piazze, vie e città.
La maggior parte della gente non conosce gli effetti di questo spreco d'energia. Giorno per giorno, lo sviluppo di zone illuminate impedisce la visione di un cielo veramente buio, e quindi stellato. Ormai sono moltissime le persone che non hanno mai visto lo spettacolo della Via Lattea, e chiunque è portato a pensare che questo problema sia di minore importanza rispetto ad altri.
Parlare di inquinamento luminoso non vuoi dire, fare un favore agli astrofili spegnendo le luci cittadine! Significa invece preservare il giusto equilibrio, non solo dell'ambiente ma anche degli animali, delle piante e degli uomini. Alcuni studi condotti sull’inquinamento luminoso hanno evidenziato come la presenza delle luci cittadine crei notevoli problemi agli animali. Uno studio in particolare, è stato condotto sulle testuggini marine negli USA, scoprendo che nelle spiagge illuminate, le testuggini non deponevano le uova (come fanno abitualmente), confondendo la notte con il giorno. Un altro studio sui lepidotteri (un genere d’insetti che si sposta di notte seguendo come riferimento la luce delle stelle e della luna), ha rivelato che da alcuni anni la presenza dell’illuminazione pubblica, disturba l’orientamento di questi insetti conducendoli erroneamente in ambienti non idonei alla loro sopravvivenza, decimandoli e portandoli in pochi anni a rischio d’estinzione; senza poi aggiungere gli innumerevoli casi di confusione tra giorno e notte da parte di altri animali, anche più evoluti. Nella zona di Venezia, per esempio, un gallo abbagliato dalle luci dell’autostrada Venezia-¬Mestre, cantava anche di notte disturbando il sonno dei vicini (articolo del Gazzettino di Venezia, 24 aprile 1997). Inoltre, uno studio sulle piante del dipartimento di biologia dell'Università di Padova, ha riscontrato come la presenza d’illuminazione notturna (specialmente con lampade al mercurio) sia la causa di una ridotta efficienza fotosintetica delle piante e degli alberi direttamente esposti, stremati continuamente dallo stress luminoso.
Non bisogna poi dimenticare i problemi che sorgono per la ricerca astronomica, in primis nel lavoro degli osservatori professionali, i quali sempre più spesso sono in crisi, poiché gli strumenti perdono la capacità di percezione degli oggetti stellari, dato che il cielo è sempre meno contrastato dal bagliore notturno.   
Molti di noi avranno anche notato come siano fastidiose le luci stradali quando gli impianti d’illuminazione sono sovradimensionati. Le luci dei cartelloni pubblicitari nelle strade, i fari rotanti delle discoteche; oltre a distrarci dalla guida divengono spesso fonte di abbagliamento specie di notte, quando la ricettività del cervello è notevolmente ridotta dalla stanchezza fisica.


La perdita del cielo stellato quindi, diviene nel tempo una perdita culturale. Basti pensare che in un terremoto di qualche anno fa, Los Angeles rimase al buio per problemi alle linee elettriche; quella stessa sera arrivarono centinaia di segnalazioni per capire cosa fossero quelle luci in cielo!
Parlare d'inquinamento luminoso vuoi dire, avere la cultura del risparmio e del rispetto per l'ambiente. Significa rendere più sicure le strade, preservare il nostro sonno (quanti di noi sono costretti a dormire con le serrande abbassate). Si calcola che in genere ogni singolo impianto d’illuminazione disperda verso l’alto il 20% della luce emessa, luce che non viene sfruttata, ma solo sprecata verso il cielo. Se si pensa al 20% di ogni luminaria, moltiplicata per tutte le lampade d’illuminazione esterna in Italia e nel mondo: ogni ora, ogni sera e ogni anno; si arriva a cifre impressionanti. Per l’Italia si è stimato che se si avessero tutti gli impianti in regola si potrebbero risparmiare circa 250 miliardi di lire annue. Così facendo, le centrali termoelettriche eviterebbero di produrre centinaia di migliaia di Kwh; si eviterebbe di bruciare tonnellate e tonnellate di combustibile in più, e infine si eviterebbero di immettere all'atmosfera altrettante tonnellate di CO2 senza un valido motivo.
Crescita dell'inquinamento luminoso
Il fenomeno dell’inquinamento luminoso è in forte crescita, favorito in tutto il mondo dallo sviluppo e dall’elettrificazione di zone sempre più ampie. In fig. 1 possiamo notare la crescita esponenziale dell’inquinamento luminoso in Italia e le relative previsioni. Le foto in fig. 2, invece, mostrano la città di Los Angeles fotografata dal monte Wilson; la prima fu scattata nel 1908, mentre la seconda, sempre dallo stesso luogo è stata ripresa nel 1988. La crescita della città e nel contempo lo sviluppo della luminosità si è più che raddoppiato in soli 80 anni.
Osserviamo con attenzione l’immagine in copertina, rappresenta il mondo di notte. Alcuni anni fa fu ottenuto quel collage di foto con le immagini dei satelliti meteorologici a 800 Km di quota, in assenza di luna e nuvole. La pellicola era sensibile a qualsiasi luce al di sopra dei 60 W. Dall’immagine si notano le tipiche forme ben definite dell’America e dell’Europa, nonché sono ben distinte le posizioni delle principali città del mondo.



Concetti di illuminotecnica
La radiazione nel visibile è compresa in media tra i 0,4 e i 0,76 micron ovvero fra i 400 e i 760 nm. Lo spettro così è composto dal colore violetto per le lunghezze d'onda piccole, e dal colore rosso per le lunghezze grandi. L’occhio umano percepisce meglio la luce alla lunghezza d’onda di 550 nm (colore giallo - verde). Cominciamo esponendo il primo concetto, quello di flusso luminoso; esso rappresenta la quantità di luce o d'energia raggiante, emessa nell’unità di tempo:

F= quantità di luce/tempo

da cui si deduce che il flusso luminoso è una potenza (energia diviso tempo). L’unità di misura è il lumen (lm).
    L’efficienza luminosa, invece è pari al rapporto fra il flusso luminoso (lm) emesso da una sorgente luminosa e la potenza elettrica assorbita (Watt, W):

E= F/P

l’efficienza luminosa si misura in lm/W; essa misura la quantità d'energia emessa per produrre una data quantità di luce. Maggiore è il numero e più efficiente sarà la lampada.
    La luminanza è pari al rapporto fra l’intensità luminosa emessa in una certa direzione e l’area della superficie emittente perpendicolare alla direzione:

U= dI/dA

la luminanza si misura in cd/mq. Nel caso in cui il flusso non sia perpendicolare alla superficie, allora bisogna dividere U per cos y, dove y è l’angolo fra flusso ed ortogonale alla superficie. La luminanza detta anche brillanza è importante in quanto se supera certi valori per ciascuna lampada, si ottiene un effetto di abbagliamento dell’occhio umano, esso quindi determina se e quanto un impianto abbagli.
    Infine la temperatura di colore è la temperatura misurata in gradi K, alla quale si associa il colore tipico della luce emessa.

Modelli di lampade in commercio
Il mercato offre diverse possibilità d’acquisto di lampade per molteplici usi, con costi e caratteristiche differenti, ecco i principali modelli.

Lampade agli alogenuri
Questo tipo di lampade sono molto usate per illuminare gli impianti sportivi, e presentano una tonalità di luce molto chiara. Emettono su tutto lo spettro del visibile e la loro efficienza luminosa è discreta. Queste lampade sono il peggior nemico dell’astrofilo, in quanto la loro radiazione non può essere filtrata dai filtri antinquinamento luminoso. Questo tipo di filtri infatti ha la caratteristica di filtrare solo una parte dello spettro visibile, e proprio con questo modello i filtri non hanno successo.

Lampade ai vapori di mercurio
Le lampade ai vapori di mercurio sono ancora presenti nelle strade cittadine. Emettono una luce bianca, ed il loro spettro copre tutto il visibile con punte dal violetto all'arancione Esse sono il nemico numero due dell'astrofilo. La tendenza attuale dei comuni prevede di sostituirle con le lampade al sodio ad alta pressione, più efficienti ed inoltre non presentano il problema dello smaltimento. La legge infatti considera questo tipo di lampade un rifiuto speciale, per la presenza del mercurio.

Lampade ad incandescenza
Sono lampade che ormai non vengono più usate per l'illuminazione esterna (anche se alcuni impianti esterni molto vecchi, ancora montano queste lampade), poiché il loro principio di funzionamento (emissione di luce tramite il passaggio di energia elettrica su filamento interno) è il meno efficiente di tutti. La lampada anche se ha un costo basso, presenta un’efficienza luminosa scadente e un’emissione in tutto lo spettro del visibile.

Lampade ai vapori di sodio ad alta pressione
Presentano una tonalità calda (rosa/arancione), e sono usate soprattutto per l’illuminazione delle vie cittadine, la loro efficienza luminosa è superiore a quella delle lampade al mercurio e agli alogenuri, inoltre hanno una durata maggiore nel tempo. I filtri nebulari o i dark sky permettono di filtrare la loro radiazione.



Lampade ai vapori di sodio a bassa pressione
Presentano la più alta efficienza luminosa, emettono luce monocromatica sulla lunghezza d'onda del sodio e quindi disturbano poco le osservazioni in quanto è luce facilmente filtrabile. Il colore è sempre il giallo ma con tonalità più scure. Sono lampade ad altissima efficienza luminosa, ma data la loro luce prettamente monocromatica sono utilizzate prevalentemente: nelle zone industriali, depositi, svincoli autostradali e distributori di benzina fuori città, dove la percezione dei colori non è un fattore importante.


Alogenuri
Sodio A.P.
Mercurio
Sodio B.P.
lm
lm/W
cd/cq
K
20.000
80
1.350
4.200
33.000
132
500
2.000
14.000
56
10
3.100
33.000
183
10
giallo


Nella tabella in alto sono riportate le principali caratteristiche delle lampade: flusso luminoso (lm), efficienza luminosa (lm/W), luminanza (cd/cq) e temperatura di colore (K). Le caratteristiche sono calcolate per lampade da 250 w (180 per il sodio a bassa pressione) Analizzando la tabella si desume che: l’efficienza luminosa delle lampade al sodio a bassa pressione è la più elevata, addirittura tripla rispetto le lampade al Mercurio: cioè a parità di lumen emessi le lampade al sodio a bassa pressione consumano un terzo di energia. Le lampade agli alogenuri hanno la più elevata intensità luminosa per unità di superficie, quindi molto abbaglianti. Una lampada al sodio a B.P, con una potenza ridotta del 30% ha un flusso luminoso pari ad una lampada al sodio ad A.P. da 250 W ed addirittura un flusso più che doppio rispetto ad una lampada al mercurio.
Riguardo alla durata di vita delle lampade, facciamo notare che finora le più durature sono quelle al mercurio; ma con la presenza degli alimentatori elettronici (premontati dei lampioni) la durata media delle lampade al sodio è stata fortemente allungata, minimizzando le differenze esistenti in passato con quelle al mercurio. Inoltre gli alimentatori permettono di stabilizzare l’efficienza luminosa delle lampade al sodio, cosa che non succede con quelle al mercurio che invecchiando perdono efficienza. Il prezzo di una lampada al sodio ad A.P è maggiore del 30% circa rispetto ad una lampada al mercurio. Sembrerebbe che le lampade al mercurio siano le più convenienti, in realtà anche se il costi d’acquisto e manutenzione delle lampade al mercurio è più basso, il costo finale invece, torna in pareggio tenendo conto delle spese di raccolta e smaltimento del mercurio; materiale che sottolineo, è considerato nocivo e che quindi ha uno smaltimento non semplice.

Apparecchi di illuminazione per esterni
L’inquinamento luminoso può essere ridotto non solo sostituendo le lampade, ma illuminando in maniera intelligente senza inutili dispersioni di luce. Per l’illuminazione esterna si usano diversi tipi di lampioni, quella che seguirà è un’attenta spiegazione dei modelli esistenti e di come fare per limitare la dispersione di luce.

Globi luminosi
I globi luminosi sono le luminarie più inquinanti. Essi sono formati da una sfera in materiale plastico trasparente. La loro forma non presenta alcuna schermatura e per tale motivo disperdono una quantità enorme di luce. Se osserviamo la curva fotometrica del globo luminoso notiamo che ai 360° si hanno tre picchi di emissione: due rivolti verso il basso ma con un angolo di 60° circa, e l’ultimo rivolto totalmente in alto, almeno il 30% di ciò che viene emesso. Si noti anche che ai 0° (verso il basso) l’intensità luminosa è zero. Quindi questo modello non illumina in modo efficiente come vorremmo. Lo sviluppo di questo tipo di luminarie avviene per il costo veramente basso, ma in opposto si ottiene un’efficienza luminosa scadente.
Per limitare i danni esistono in commercio dei globi schermati con paraluce. In questo modo la curva fotometrica risulta cambiata. Non c'è più il picco di emissione verso l'alto e la luce si distribuisce maggiormente verso il basso, migliorando anche l'emissione ai 0°. Così facendo abbiamo migliorato la resa del globo, con la possibilità di diminuire anche la potenza della lampada del 30-40%, ed inoltre se si sostituisse la lampada al mercurio con una al sodio, si potrebbe risparmiare fino al 60-70% di potenza.

Lampioni
I lampioni stradali, supportano in genere lampade al mercurio oppure al sodio ad A.P. o B.P. Il lampione in figura è il modello che più spesso vediamo nelle nostre strade. Esso presenta una coppa in vetro o policarbonato che diffonde la luce, ma la coppa essendo molto pronunciata e di forma semisferica produce una dispersione di luce dal 5 all’8%. Tra l'altro questo lampione dà un abbagliamento diretto alla vista, molto pericoloso per chi guida.
In figura 8 troviamo invece un lampione schermato (in inglese cut-off) Questo tipo di lampione ha un'ottica incassata, con un vetro di protezione piano e non bombato, con un angolo di inclinazione rispetto al piano di calpestio di zero o al massimo di pochi gradi. Con questa soluzione la dispersione di luce è dell'ordine dell’1%. In figura notiamo le curve fotometriche di un lampione normale e di uno schermato. Si noterà che il lampione normale presenta uno schema fotometrico abbastanza direzionato, ma il cut-off risulta avere un’intensità luminosa negli angoli di calpestio molto maggiore del primo, quindi a parità di condizioni illumina di più.
In definitiva un lampione normale con lampada al mercurio da 250 W è equivalente ad un lampione schermato con lampada al sodio al alta pressione da 400 W.



Fari e torri faro
I fari o i proiettori sono utilizzati: degli impianti sportivi, stadi, depositi, scali, cabine elettriche, piazzali, monumenti, ecc. In genere montano lampade agli alogenuri e sono spesso di conformazione simmetrica. Dalle figure a lato notiamo la disposizione del fasci, che denota come solo con un faro asimmetrico sia possibile direzionare meglio il fascio luminoso. Un altro elemento importante per i fari è la loro inclinazione rispetto il piano di calpestio. Oggi la non conoscenza del problema porta a dover vedere fari direzionati non verso l’alto o in angolo orizzontale, con notevoli fenomeni di abbagliamento ottico. L'inclinazione ottimale per un faro non deve superare i 30°, esistono per questo sul mercato torri faro schermate.


Soluzioni 
Dopo aver conosciuto le cause e gli effetti dell'inquinamento luminoso, parliamo adesso di come affrontarlo. La risoluzione parte dal principio del risparmio energetico e non dello spegnimento delle luci, non si chiede quindi di salvaguardare il cielo spegnendo le città, ma di illuminare meglio. A tal proposito ogni cittadino o nel nostro caso ogni astrofilo ha il diritto di cercare ogni mezzo per la risoluzione del problema, basterebbe che ogni Comune o Regione approvasse una legge antinquinamento. In Italia da anni ci si batte per avere delle leggi di tutela, alcuni passi sono stati fatti. Delle regioni come il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, la Valle d'Aosta ecc. hanno approvato un regolamento regionale, così come hanno fatto altri comuni d'Italia sensibilizzati dall'incessante divulgazione degli astrofili. Al Parlamento c'è anche una proposta di legge proprio su questo argomento, ma purtroppo i tempi di discussione e approvazione sembrano eterni, basti pensare che la legge giace dal 1996 senza essere ancora discussa. L’UAI di recente ha creato la Commissione Nazionale Inquinamento Luminoso (C.N.I.L.) che con articoli e recensioni svolge un’importante lavoro. Ma andiamo a conoscere i concetti sulle quali si basano queste leggi.



Lampade: le lampade devono essere preferibilmente quelle al sodio ad A.P. In alcuni luoghi dove non è necessaria la percezione dei colori, si possono usare le lampade al sodio a B.P, magari in prossimità di depositi, magazzini ecc. Il suggerimento vale anche per le torri faro.
Lampioni: i lampioni stradali devono essere schermati con alta efficienza, i cosiddetti cut-off. La lampada deve quindi essere ben incassata nel lampione e non vi deve essere presente alcun vetro sporgente e ricurvo.
Lampioni e pali: per i lampioni oltre alla schermatura suddetta è necessario che il palo non sia ricurvo ma con un braccio a 90° e ben rivolto verso il basso.
Fari: la struttura dei fari deve essere asimmetrica, agevolando così l'orientamento e migliorando la superficie da illuminare.
Inclinazione dei fari: l'inclinazione non deve superare i 30° rispetto il piano di calpestio.
Globi luminosi: i globi possono anche essere mantenuti, purché abbiano uno schermo che ne delimiti la direzione di emissione.
Insegne luminose: le insegne pubblicitarie semitrasparenti che emettono luce, necessitano di uno schermo superiore, cosi come le insegne illuminate dall’esterno devono avere un orientamento del fascio luminoso dall’alto verso il basso.
Dimensionamento degli impianti: gli impianti d’illuminazione vanno ben dimensionati senza creare gli eccessi di lumen ben visibili in alcune piazze e vie.
Accensione e regolazione degli impianti: gli impianti vanno ben tarati per quanto riguarda gli orari di accensione e spegnimento, senza troppi anticipi o posticipi (regolare meglio i relè crepuscolari). Inoltre dopo le prime ore della mattina si può programmare uno spegnimento alternato di alcune lampade in determinate vie, magari riducendo l'intensità d'emissione.
Nelle leggi approvate, in molti casi si fa riferimento al lavoro delle associazioni di astrofili, i quali hanno il compito di sorveglianza e controllo dello stato d’illuminazione, nonché di vigilanza nei confronti delle infrazioni. Ecco perché in generale è importante che gli astrofili siano ben informati.

Bibliografia
L'Astronomia n°122 pag. 26;
Astronomia UAI, nov-dic’98 pag.39;
Astronomia UAI, mar-apr’99 pag.45;
Astronomia UAI, mag-giu’99 pag.39;
Astronomia UAI, lug-ago’99 pag.41;
sito Internet www.pd.astro.it/cinzano ;
sito Internet www.uai.it